Autoritratto entro uno specchio convesso – John Ashbery

Autoritratto entro uno specchio convesso, John Ashbery (Bompiani 2019).

Esce, per i tipi della Bompiani, Autoritratto entro uno specchio convesso di John Ashbery. Libro già edito in Italia nel 1983 per Garzanti con traduzione di Aldo Busi, viene ripresentato nella diversa (rispetto a Busi) traduzione di Damiano Abeni. Una scelta volta anche a sottolineare e misurare le differenze tra ciò che eravamo, socialmente e culturalmente, nell’83 rispetto a oggi.

Perché un libro di poesia, specialmente quando vero libro di poesia, serve anche a misurare ciò che siamo e che quotidianamente non comprendiamo. Come un figlio che dal padre viene percepito sempre uguale, giorno dopo giorno, mentre viene visto, anche a pochi mesi di distanza, estremamente cresciuto da uno zio (per esempio) che lo frequenta poco. Immersi come siamo non realizziamo con esattezza chi siamo e cosa stiamo facendo. Consapevoli di molto e inconsapevoli di tanto, attraverso i libri possiamo prendere coscienza dello scarto culturale che dice di noi.

In quest’ottica l’edizione Bompiani propone, proprio in virtù del fatto che sceglie (assieme a Non è tempo di essere di Vladislav Chodasevič e L’ultimo spegne la luce di Nicanor Parra) un titolo già tradotto più di trent’anni prima (a onor del vero si conta anche l’antologia del 2008 per l’editore Luca Sossella Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, a cura di Damiano Abeni e Moira Egan), un progetto intelligente e promettente aprendo la collana Capoversi. Un inizio ottimale, pur pregno di responsabilità che dovrà essere ben gestita nel tempo.

 

Gerardo Masuccio, nel suo scritto introduttivo alla collana, afferma: Cos’è mai la poesia? / Più d’una risposta incerta / è stata già data in proposito. / Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo / come alla salvezza di un corrimano.” Con questi versi la poetessa Wisława Szymborska illustra a se stessa e al lettore la natura della poesia, nel tentativo necessario e insieme vano di esprimere l’ineffabile e circoscriverlo nel perimetro di una definizione. Sembra che la poesia si sottragga a ogni norma, che esuli dalle categorie, rifugga le etichette e che ciononostante sappia cogliere l’essenza della vita umana nella sua inspiegabile ambiguità. È una rivelazione codificata che sfiorando la razionalità coglie una verità profonda; una verità che si lascia intuire ma non è mai decifrabile appieno, che restituisce all’uomo la sua cifra più alta e non gli si rivela.

CapoVersi, la nuova collana poetica di Bompiani, propone ai lettori una selezione della miglior poesia contemporanea, in costante equilibrio tra gli autori di culto del Novecento e le più acclamate voci del nuovo millennio, tra le linee tradizionali e l’avanguardia, tra le lingue franche e quelle regionali, tra l’Oriente e l’Occidente. In un’elegante veste grafica, con i testi originali a fronte, la collana eredita e rinsalda la pluridecennale consuetudine di Bompiani con le opere in versi, dai classici dell’antichità a Shakespeare, da Spenser a Yourcenar, da Eliot a Houellebecq.

CapoVersi come versi capitali. CapoVersi come mappe, direzioni e punti cardinali. CapoVersi come ripresa della scrittura dopo un invio a capo, come rinascita di chi trova nel verso e nella sua ineffabilità il corrimano che allevia la salita senza rivelarne il mistero.

 

Vediamo quindi subito, per amore di comparazione ma lasciando ad altri un’analisi doverosamente più accurata, i primi versi del testo Autoritratto entro uno specchio convesso nelle due traduzioni disponibili:

 
Come lo fece Parmigianino, la mano destra
più grossa della testa, spinta verso l’osservatore
e graziosamente in rientranza, come a proteggere
ciò che mostra. Qualche lastra piombata, vecchie travi,
pelliccia, mussola arricciata, un anello di corallo concorre
in un movimento che sorregge il viso che nuota
avanti e indietro come la mano
soltanto che è in riposo. È quello che è
sotto sequestro. Dice il Vasari: ‹‹Francesco un giorno
si mise a ritrarre se stesso, guardandosi
in uno specchio da’ barbieri di que’ convessi…
Fatta fare una palla di legno al tornio,
e quella divisa per farla mezzo tonda,
e ridotta alla grandezza dello specchio, in quella
si mise con grande arte a contraffare tutto quello che vedeva nello specchio.
Principalmente la sua immagine riflessa, di cui il ritratto.
è il riflesso asportato.
Lo specchio preferì riflettere solo ciò che egli vedeva,
cosa che era sufficiente al suo scopo: la sua immagine
invetriata, imbalsamata, proiettata a un angolo di 180°.
L’ora del giorno o la densità della luce
aderendo al viso lo mantiene
vivo e intatto in un’onda perennemente
in arrivo. L’anima prende posto.
Ma fin dove può sconfinare dagli occhi
e tuttavia ritornare illesa al suo nascondiglio?
La superficie dello specchio essendo convesso, la distanza aumenta
considerevolmente; cioè, abbastanza per indicare
che l’anima è prigioniera, umanamente trattata, tenuta
in sospensione, incapace di avanzare più in là
del tuo sguardo quando intercetta il dipinto.
Papa Clemente e la sua corte ne furono ‹‹maravigliati››
secondo il Vasari, e promisero una commissione
che mai si concretizzò. L’anima deve stare dov’è,
sebbene irrequieta, a udire la pioggia sul vetro,
il sospiro delle foglie autunnali sferzate dal vento,
bramando la libertà, fuori, ma deve restare
in questo luogo, in posa. Deve muoversi
il meno possibile. Questo è quanto dice il ritratto.
Ma in quello sguardo c’è una combinazione
di tenerezza, divertimento e rimpianto così possente
nel suo riserbo che non si può guardare troppo a lungo.
Il segreto è troppo scontato. La pietà che ispira brucia,
fa zampillare calde lacrime: che l’anima non è un’anima,
non ha segreti, è minuta e riempie
perfettamente la sua cruna: il suo spazio, il nostro momento di attenzione.
Questa è la melodia ma non ci sono parole.
Le parole sono soltanto speculazioni
(dal latino speculum, specchio):
Esse cercano e non possono trovare il significato della musica.
[…]  
Traduzione di Aldo Busi
 
 
 
 
Come lo fece Parmigianino, la mano destra
più grande della testa, protesa verso lo spettatore
mentre con naturalezza sfugge, come a proteggere
ciò che sfoggia. Qualche vetro piombato, travi antiche,
pelliccia, mussola pieghettata, un anello di corallo confluiscono
in un movimento che sostiene il volto, che fluttua
avvicinandosi e allontanandosi come la mano
tranne che è a riposo. È quel che è
sequestrato. Vasari dice: “Francesco un giorno si mise
a ritrarre se stesso, guardandosi
in uno specchio da barbieri, di que’ mezzotondi…
Laonde fatta fare una palla di legno
al tornio, e quella divisa per farla mezza tonda e
di grandezza simile allo specchio, in quella si mise
con grande arte a contraffare tutto quello che vedeva nello specchio,”
essenzialmente il proprio riflesso, di cui il ritratto
è il riflesso di secondo grado.
Lo specchio scelse di riflettere solo ciò che egli vedeva
e che bastava al suo scopo: la sua immagine
vetrificata, imbalsamata, proiettata a un angolo di 180 gradi.
L’ora del giorno o la densità della luce
adesa al volto lo mantiene
vivido e intatto in un’onda reiterata
d’arrivo. L’anima instaura se stessa.
Ma fin dove può fluttuare lontano attraverso gli occhi
e ancora tornare sana e salva al proprio nido? Essendo
la superficie dello specchio convessa, la distanza aumenterà
considerevolmente; vale a dire quanto basta per asserire
che l’anima è un prigioniero, trattato in modo umano, tenuto
sospeso, incapace di incedere molto oltre
il tuo sguardo che intercetta il dipinto.
Papa Clemente e la sua corte ne furono “stupefatti”,
secondo Vasari, e promisero una commissione
che non si concretizzò mai. L’anima deve restare dov’è,
per quanto inquieta, a sentire la pioggia sul vetro,
il sospiro delle foglie autunnali sferzate dal vento,
e bramare d’essere libera, all’aperto, ma deve restare
in posa, in questo posto. Deve muoversi
il meno possibile. Questo dice il ritratto.
Ma in quello sguardo c’è un misto
di tenerezza, divertimento e rimpianto, tanto possente
nel suo autocontrollo, che non lo si può guardare a lungo.
Il segreto è troppo ovvio. La pena che ci suscita brucia,
fa sgorgare lacrime ardenti: che l’anima non è un’anima,
non ha segreti, è piccola, e colma
il proprio vuoto alla perfezione: la sua stanza, il nostro istante d’attenzione.
Quella è la melodia, ma senza parola alcuna.
Le parole sono solo speculazioni
(dal latino speculum, specchio):
cercano senza poterlo trovare il senso della musica.
[…]  
Traduzione di Damiano Abeni
 
 

Nelle due versioni possiamo notare le scelte:

 
thrust at the viewer
And swerving easily away, as though to protect
What it advertises.

 
spinta verso l’osservatore
e graziosamente in rientranza, come a proteggere
ciò che mostra.
Busi
 
protesa verso lo spettatore
mentre con naturalezza sfugge, come a proteggere
ciò che sfoggia.
Abeni
 
 
 
 
Chiefly his reflection, of which the portrait
Is the reflection once removed.

 
Principalmente la sua immagine riflessa, di cui il ritratto
è il riflesso asportato.
Busi
 
essenzialmente il proprio riflesso, di cui il ritratto
è il riflesso di secondo grado.
Abeni
 
 
 
 
The soul establishes itself.
 
L’anima prende posto.
Busi
 
L’anima instaura se stessa.
Abeni
 
 
 
 
But how far can it swim out through the eyes
And still return safely to its nest?

 
Ma fin dove può sconfinare dagli occhi
e tuttavia ritornare illesa al suo nascondiglio?
Busi
 
Ma fin dove può fluttuare lontano attraverso gli occhi
e ancora tornare sana e salva al proprio nido?
Abeni
 
 
 
 
That the soul is a captive, treated humanely, kept
In suspension, unable to advance much farther

 
che l’anima è prigioniera, umanamente trattata, tenuta
in sospensione, incapace di avanzare più in là
Busi
 
che l’anima è un prigioniero, trattato in modo umano, tenuto
sospeso, incapace di incedere molto oltre
Abeni
 
 
 
 
The secret is too plain. The pity of it smarts
 
Il segreto è troppo scontato. La pietà che ispira brucia
Busi
 
Il segreto è troppo ovvio. La pena che ci suscita brucia
Abeni
 
 
 
 
They seek and cannot fi nd the meaning of the music
 
Esse cercano e non possono trovare il significato della musica
Busi
 
Cercano senza poterlo trovare il senso della musica
Abeni
 
 

Un altro livello di paragone interessante invece è con gli autori italiani a lui contemporanei. Si prenda ad esempio un testo di Ashbery (la cui prima edizione del libro in esame risale al 1975) e lo si metta a confronto con un testo tratto da Dal fondo delle campagne di Mario Luzi (1965):

 
Ogni cosa pare citazione di se stessa
e i nomi che ne germinano si ramificano in altri referenti.
Immane, la primavera torna a esistere. La weigelia esegue il proprio numero di polvere
nell’aria forgiata a fuoco. E i bidoni della spazzatura vengono sollevati
sulla ringhiera mentre i tulipani sbadigliano e si schiudono e poi si sfanno.
E oggi è lunedì. Oggi a pranzo: frittata di cipolle, patate
e peperoni con insalata di lattuga e
pomodori,
gelatina dolce, latte e biscotti. Domani: panino col macinato agrodolce,
mais al gratin, pomodori al vapore, pudding di riso, latte.
I nomi che abbiamo rubato non ci sopprimono:
siamo passati ad altro un po’ prima di loro
e ora è di nuovo tempo di attendere.
Solo l’attesa, l’attendere: cosa riempie il frattempo?
È un altro tipo di attesa, attendere che l’attesa termini.
Niente occupa il tempo assegnato,
l’attesa è insita nelle cose sul punto di conseguire pienezza.
Niente è incompiuto in modo parziale, ma l’attesa
interessa ogni cosa come un clima.
Che ora è del giorno?
C’è niente che importi?
Sì, poiché si deve aspettare per vedere davvero com’è
l’evento che sta per sbucare da dietro l’angolo
che sarà dissimile da tutto e in realtà
non sorprenderà affatto: è troppo vasto.
Acqua
sgoccia da un condizionatore
su chi passa lì sotto. È una delle attrazioni del nostro paese.
Puaah! Vomito. Puaaaaah! Altro vomito. Uno che porta
a spasso il cane al guinzaglio è troppo lontano per dire come tutto
trasformi il minuto in un’ora, l’ora
nelle ore di un giorno, i giorni in mesi, entità di facile comprensione,
e i mesi in stagioni, che sono tutt’altro, estranee
alla nostra concezione del tempo. Meglio i mesi –
che sono quasi persone – di queste astrazioni
che filtrano come polvere di marmo tra le opere incompiute dello studio
trasformando tutto, invecchiandolo, in una parodia di se stesso.
Meglio che il comitato del repulisti si occupi
di qualche voce che ora è poco più di un tratto
di uno stile obsoleto – cornicione o pennacchio d’arco
che emerge da un’interezza vagamente rammentata
cui probabilmente manca vera personalità. Ma lo si potesse riprendere,
portarlo altrove, ricollocarlo,
allora l’opera alfi ne sarebbe riscattata
sotto la distesa sorridente del cielo
che non ha figli e figliastri ma che in modo equanime
è onore solo per chi l’ha perseguito.
Il cane abbaia, la carovana passa e va.
Le parole portavano su di sé una specie di fioritura
ma erano impalpabili, andavano oltre ciò che veniva detto.
“Un buon momento,” pensi, “per uscire:
a prima sera fa fresco, ma
niente di esagerato. Gente in giro coi cagnolini
oltre prati ben tenuti e lotti incolti come se anche questi fossero chissà perché entità imponderabili
prima di rientrare a casa, al pudore della propria vita privata,
muta, a porte chiuse, niente affatto affare d’altri.
Un poco agli altri importa
ma solo perché gli fa capire a che immensa distanza il loro rispetto
li ha trascinati. Nessuno oserebbe mai intromettersi.
È una sera come tante altre
con il cielo adesso un tantino voglioso che l’oggi si concluda
come una commessa stufa marcia che ciondola da un piede all’altro, fasciata nei collant.”
Questi mutandoni cachi stesi ad asciugare,
in cui il vento si intrufola gonfiandoli, prenderemo mai una posizione decisa?
E gli edifici cui sempre passiamo davanti senza parlarne mai –
ci sta scappando di mano.
Fintanto che si ha anche solo una pallida idea che ogni cosa sappia qual è il proprio posto
 
[…]  
È solo l’allontanarsi della carovana
che si addentra nella notte astratta, senza alcuna
precisa meta in vista, e in verità del tutto incurante,
che conferisce questa pausa. Perché partire a razzo
in tutta fretta nella direzione opposta, verso l’altro capo dell’infinito?
Le cose infatti possono temprarsi eloquentemente nell’attimo dell’indecisione.
Non so decidere in che direzione incamminarmi
ma per me non ha importanza, e potrei anche
decidere di scalare una montagna (pare pressoché piatta)
oppure di andare a casa
o al bar o al ristorante o a casa
di amici piacevoli e inconcludenti come me
perché queste pause dovrebbero essere la vita
e infilzano aghi d’acciaio fondi nei pori, come a dire
non serve a niente cercare di evadere
e che tutto è qui sempre e comunque. E le loro pendici, ripide, infide, resistono a
qualsiasi idea di continuità. È questo
che ci fa rientrare in ciò che è davvero, a quanto pare, la storia –
dimessa, disorganizzata, senza date
che si pronuncia dal tronco cavo di una pianta
per far stare alla larga chi è solo beneducato, o quelli il cui destino
non lascia affatto tempo per cavillare sui mezzi,
che non sono fini, eppure… Ma cosa c’è di preciso
nel momento del giorno, nel clima, che porta la gente a registrarlo con acribia nei diari
che lo leggano i posteri?
Certo è perché il raggio di luce
o la tenebra che ti colpisce in questo momento è speranza
nella sua più piena forma matura, matronale, che vaglia tutte le cose
ridistribuendole in ordine di grandezza
in modo che se anche non si può dire si tratti del mondo naturale
in cui si sarebbe dovuto verificare, per lo meno non ci sarà ragione di lamentarsi
che è poi lo stesso che aver raggiunto la fine, saggi
in quella aspettativa e affinati da quel conseguimento o dalla sua assenza.
Ma noi diciamo, non può giungere ad alcuna fine del genere
fin quando veniamo lasciati in giro senza un tetto sulla testa.
Eppure è finita, e siamo diventati la cosa che abbiamo compiuto.
 
[…]  
John Ashbery
 
 
 
 
Mutamenti da un’ora all’altra di nuvole
oscurano, rischiarano la stanza,
variano il corso dei pensieri. Il cane
sonnecchia steso tra la madia e l’angolo
o si strofina contro muri e spigoli
finché ritorna ad accucciarsi. Le ore
passano senza che altro ne dia segno
o storni almeno un po’ la mente.
La luce infiamma o lascia oscuro il tavolo
e il vassoio, sul vassoio le arance.
 
È un giorno senza novità o persone…
Tu che occupi tutta quanto è vasta
epoca dopo epoca la storia
in tutta la sua distesa, in tutta
l’altezza dai fondali alle montagne
dove in rocce vietate all’uomo
incerto muove i passi lo sherpa
ma diffondi oscurità
difficile a forare
e se mai solo vivendo, se mai solo scendendo questa scala,
 
è un giorno senza novità o persone
ora di batticuore ora più certo
d’un libro aperto sulla giusta pagina,
un giorno, un giorno tra il prima e il poi, tra il cibo e il sonno.
 
Mario Luzi
 
 

Ashbery ha il merito indiretto, proprio in virtù della sua capacità evocativa e penetrativa, di chiarire e meglio definire ciò che non è Ashbery. Nel paragone non emergono solo le distanze ma anche una migliore collocazione del testo in esame. A indicare la solidità di una poesia che, pur nutrita sovente di una certa frammentazione legata a sé stessa, può essere considerata un punto fermo di stile e contenuto.

Altro elemento interessante che emerge dal poeta statunitense, se messo in relazione con la cultura italiana, è la definizione di poesia. Come sappiamo nella cultura della penisola la domanda cos’è la poesia torna ciclicamente quasi come un tema autoalimentante. In questo Ashbery risolve la questione sottolineando la marginalità stessa della domanda:

 
Or, to take another example: last month
I vowed to write more. What is writing?
Well, in my case, it’s getting down on paper
Not thoughts, exactly, but ideas, maybe:
Ideas about thoughts. Thoughts is too grand a word.
Ideas is better, though not precisely what I mean.
Someday I’ll explain. Not today though.

 
 
O, per fare un altro esempio: il mese scorso
ho giurato a me stesso che avrei scritto di più. Cos’è lo scrivere?
Beh, nel mio caso, è fissare sulla carta
non proprio pensieri, ma idee, forse:
idee sui pensieri. Pensieri è parola troppo magniloquente.
Idee va meglio, anche se non è esattamente ciò che intendo.
Un giorno spiegherò. Non oggi, però.
 
 

Tema che possiamo intravedere anche in un altro testo che riporta alla mente un’intervista rilasciata a David Remnick nel 1980, poi pubblicata sulla Bennington Review e ripresa recentemente da Pangea:

La mia poesia non è legata a una particolare tradizione – lo è un po’ di più se questo legame lo sostiene qualche critico importante. Molte persone si scocciano, alzano le mani e dicono che le mie poesie non sono affatto poesie. Non mi considero un distruttore della poesia, ma uno che, a modo proprio, come può, perpetua una tradizione. […] Harold Bloom si sforza di tracciare un percorso di influenze che mi legherebbe a Whitman e a Stevens. Una volta gli ho detto che non avevo letto i testi di Emerson di cui dice che io sarei l’erede. Rispose che comunque ero stato influenzato da lui. Non voleva sentirsi dire che non lo conoscevo. Questa faccenda delle influenze non la capisco. Penso che siano imputate da un critico per supportare le proprie argomentazioni. Un poeta è influenzato da molte cose, non solo dalla poesia, ma anche dal clima, dalla stanza in cui si trova, da qualsiasi cosa – e ogni cosa è egualmente importante.

 
 

Da Autoritratto entro uno specchio convesso:

 
One must bear in mind one thing.
It isn’t necessary to know what that thing is.
All things are palpable, none are known.
The day fries, with a fi ne conscience,
Shadows, ripples, underbrush, old cars.
 
The conscience is to you as what is known,
The unknowable gets to be known.
Familiar things seem a long way off

 
 
Si deve tenere in mente una cosa.
Non è necessario sapere cosa sia quella cosa.
Ogni cosa è palpabile, nessuna è conosciuta.
Il giorno frigge, con fine consapevolezza,
ombre, increspature d’acqua, sottobosco, vecchie auto.
 
La coscienza è per te ciò che è conosciuto,
l’inconoscibile giunge a essere conosciuto.
Le cose familiari paiono distantissime.
 
 

Un ultimo aspetto che mi pare importante sottolineare di questo libro è la poesia omonima. Un testo particolarmente lungo e articolato e bene argomentato da Harold Bloom in prefazione (che lascia comunque alcuni interrogativi in relazione alla poesia di Ashbery, non tanto a livello di critica quanto di stile) che colpisce il lettore per il suo movimento.

Si possono infatti riconoscere dei punti di approdo e sosta nel movimento del testo. Ne voglio accennare solo alcuni, in maniera dichiaratamente non esaustiva:

 

La mano
 
As Parmigianino did it, the right hand
Bigger than the head, thrust at the viewer

 
 
Come lo fece Parmigianino, la mano destra
più grande della testa, protesa verso lo spettatore
 
 
 
 
Riflesso altro
 
The glass chose to refl ect only what he saw
Which was enough for his purpose: his image
Glazed, embalmed, projected at a 180- degree angle.

 
 
Lo specchio scelse di riflettere solo ciò che egli vedeva
e che bastava al suo scopo: la sua immagine
vetrificata, imbalsamata, proiettata a un angolo di 180 gradi.
 
 
 
 
La stanza
 
But your eyes proclaim
That everything is surface. The surface is what’s there
And nothing can exist except what’s there.
There are no recesses in the room, only alcoves,
And the window doesn’t matter much, or that
Sliver of window or mirror on the right

 
 
Ma i tuoi occhi proclamano
che tutto è superficie. La superficie è ciò che c’è,
e nulla può esistere se non ciò che c’è.
Non ci sono recessi nella stanza, solo alcove,
e la finestra importa poco, o quella
scheggia di finestra o specchio sulla destra
 
 
 
 
Lo spazio
 
But what is this universe the porch of
As it veers in and out, back and forth,
Refusing to surround us and still the only
Thing we can see? Love once
Tipped the scales but now is shadowed, invisible,
Though mysteriously present, around somewhere.

 
 
Ma di cosa è la veranda questo universo
nel suo virare dentro e fuori, avanti e indietro,
rifiutandosi di cingerci eppure restando l’unica
cosa che riusciamo a vedere? L’amore un tempo
faceva pendere l’ago della bilancia ma adesso è offuscato, invisibile,
seppure misteriosamente presente, chissà dove.
 
 
 
 
Il tempo
 

No previous day would have been like this.
I used to think they were all alike,
That the present always looked the same to everybody
But this confusion drains away as one
Is always cresting into one’s present.

 
 
Nessun giorno precedente sarebbe potuto essere come questo.
Una volta credevo che s’assomigliassero tutti,
che il presente avesse per chiunque lo stesso aspetto
ma tale fraintendimento defluisce via poiché
ci si sta sempre sollevando come cresta d’onda nel proprio presente.
 
 
 
 
La trasformazione
 

No one
Alludes to the change; to do so might
Involve calling attention to oneself
Which would augment the dread of not getting out
Before having seen the whole collection
(Except for the sculptures in the basement:
They are where they belong).
Our time gets to be veiled, compromised
By the portrait’s will to endure. It hints at
Our own, which we were hoping to keep hidden.

 
 
Vale a dire, tutto il tempo
si riduce a un tempo senza peculiarità. Nessuno
fa allusione alla trasformazione; il farlo potrebbe
comportare il richiamare l’attenzione su se stessi
il che incrementerebbe il terrore di non uscire
prima di aver visto la collezione completa
(escluse le sculture nel seminterrato,
che stanno dove si meritano di stare).
Il nostro tempo si vela, compromesso
dalla volontà di resistere del ritratto. Accenna
alla nostra, che speravamo di tenere nascosta.
 
 
 
 
Sarebbe potuto essere
 
This could have been our paradise: exotic
Refuge within an exhausted world, but that wasn’t
In the cards, because it couldn’t have been
The point. Aping naturalness may be the fi rst step
Toward achieving an inner calm
But it is the fi rst step only, and often
Remains a frozen gesture of welcome etched
On the air materializing behind it,
A convention.

 
 
Questo sarebbe potuto essere il nostro paradiso: esotico
rifugio in un mondo spossato, ma non era
destino, perché non sarebbe mai potuto essere il punto
della questione. Scimmiottare naturalezza potrebbe costituire il primo passo
per conseguire calma interiore
ma è il primo passo soltanto, e sovente
resta un cenno di benvenuto pietrificato, inciso
nell’aria che si materializza alle sue spalle,
una convenzione.
 
 
 
 
Ritira quella mano
 
Therefore I beseech you, withdraw that hand,
Off er it no longer as shield or greeting,
The shield of a greeting, Francesco:
There is room for one bullet in the chamber

 
 
Perciò ti imploro, ritira quella mano,
non porgerla più in segno di saluto o come scudo,
lo scudo di un saluto, Francesco:
c’è posto per un solo proiettile nella camera di scoppio
 
 
 
 
Conclusione
 
Its existence
Was real, though troubled, and the ache
Of this waking dream can never drown out
The diagram still sketched on the wind,
Chosen, meant for me and materialized
In the disguising radiance of my room.
We have seen the city; it is the gibbous
Mirrored eye of an insect. All things happen
On its balcony and are resumed within,
But the action is the cold, syrupy fl ow
Of a pageant. One feels too confi ned,
Sifting the April sunlight for clues,
In the mere stillness of the ease of its
Parameter. The hand holds no chalk
And each part of the whole falls off
And cannot know it knew, except
Here and there, in cold pockets
Of remembrance, whispers out of time.

 
 
La sua esistenza
è stata reale, seppure tormentata, e la pena
di questo sogno a occhi aperti non potrà mai soffocare
lo schema ancora disegnato sul vento,
scelto e destinato a me, materializzatosi
nella radiosità ingannevole della mia stanza.
Abbiamo visto la città; è il gibboso
occhio riflesso di un insetto. Ogni cosa accade
sul suo balcone e viene ricapitolata al suo interno,
ma l’azione è il freddo flusso sciropposo
di una sfilata in maschera. Ci si sente troppo limitati,
setacciando in cerca di prove la luce di aprile,
nella pura immobilità della serenità del suo
parametro. La mano non regge alcun gesso
e ogni parte dell’insieme si deteriora
e non può sapere di aver saputo, se non
qui e là, in gelidi recessi
di rimembranza, sussurri fuori dal tempo.
 
 

Il testo si muove in un percorso circolare che argomenta la non riconoscibilità di sé, l’alterità del medesimo, partendo da un particolare e allontanando lo sguardo in uno spazio e tempo più ampi fino a tornare al particolare della mano con un’esortazione/apertura a una riflessione onnicomprensiva. Che, emblematicamente, ripropone la deformità dell’io per suggerire una sua parvenza fuori dal tempo, dove quel fuori ricalca alcuni versi iniziali del testo:

 
False disarray as proof of authenticity.
But it is life englobed.
One would like to stick one’s hand
Out of the globe, but its dimension,
What carries it, will not allow it.
No doubt it is this, not the refl ex
To hide something, which makes the hand loom large
As it retreats slightly. There is no way
To build it fl at like a section of wall:
It must join the segment of a circle,
Roving back to the body of which it seems
So unlikely a part, to fence in and shore up the face
On which the eff ort of this condition reads
Like a pinpoint of a smile, a spark
Or star one is not sure of having seen
As darkness resumes.

 
 
 
 
Ma la vita è inglobata.
Piacerebbe protendere la mano
fuori dal globo, ma la sua dimensione,
ciò che la sostiene, non lo concede.
Senza alcun dubbio è questo, non il riflesso
a nascondere qualcosa, a far sì che la mano si profili immensa
nel ritrarsi appena. Non c’è modo
di erigerla piana come una sezione di muro:
deve unirsi al segmento di un cerchio,
errando a ritroso verso il corpo di cui pare
parte tanto inverosimile, per recingere e puntellare il viso
su cui lo sforzo di questa condizione suscita l’impressione
di una punta di spillo di sorriso, scintilla
o stella che non si è sicuri d’aver visto
al reinsediarsi del buio.
 
 

Quello stesso balcone, quello stesso buio, che altrove vengono richiamati:

 
The vehicular madness
Goes on, crashing, thrashing away, but
For many this is near enough to the end: one may
Draw up a chair close to the balcony railing.
The sunset is just starting to light up.
 
As when the songs start to go
Not much can be done about it. Waiting

 
 
La follia veicolare
continua, schiantandosi, continuando a sbattere, ma
per molti ciò significa trovarsi piuttosto vicini alla fine: si può
avvicinare una sedia al parapetto del balcone.
Il tramonto proprio ora comincia ad accendersi.
 
Come quando i canti cominciano a svanire
non ci si può fare quasi nulla.
 
 

La poesia di Ashbery appare come un enorme tessuto frammentato eppure omogeneo, denso di rimandi e architetture composte da un linguaggio volutamente non aulico, a tratti colloquiale, quotidiano con alcune sferzate liriche. Con delle chiuse, inoltre, che spesso rappresentano il punto di arrivo dei nodi messi in campo, dei frammenti. Due versi, tre, che chiudendo il testo risolvono il medesimo mettendo in discussione il lettore.

Perché di fronte alla poesia di Ashbery non si può rimanere indifferenti. In ogni poesia emerge non solo una misura culturale ma anche una misura esistenziale. Un io che non è Ashbery ma è un tu collettivo, un noi. Al quale il poeta fa continuamente riferimento.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
The tomb of Stuart Merrill
 
It is the first soir of March
They have taken the plants away.
 
Martha Hoople wanted a big “gnossienne” hydrangea
Smelling all over of Jicky for her
Card party: the basement couldn’t
Hold up all that wildness.
 
The petits fours have left.
 
Then up and spake the Major:
The new conservatism is
Sitting down beside you.
Once when the bus slid out past Place Pereire
I caught the lens- cover reflection: lilacs
Won’t make much diff erence it said.
 
Otherwise in Paris why
You never approved much of my pet remedies.
I spoke once of a palliative for piles
You wouldn’t try or admit to trying any other.
Now we live without or rather we get along without
Each other. Each of us does
Live within that conundrum
 
We don’t call living
Both shut up and open.
Can knowledge ever be harmful?
How about a mandate? I think
Of throwing myself on the mercy of the court.
 
They are bringing the plants back
One by one
In the interstices of heaven, earth and today.
 

“I have become attracted to your style. You seem to possess within your work an air of total freedom of expression and imagery, somewhat interesting and puzzling. After I read one of your poems, I’m always tempted to read and reread it. It seems that my inexperience holds me back from understanding your meanings.

 

“I really would like to know what it is you do to ‘magnetize’ your poetry, where the curious reader, always a bit puzzled, comes back for a clearer insight.”

 
The canons are falling
One by one
Including “le célèbre” of Pachelbel
The fi nal movement of Franck’s sonata for piano and violin.
How about a new kind of hermetic conservatism
 
Let’s get on with it
But what about the past
 
Because it only builds up out of fragments.
Each evening we walk out to see
How they are coming along with the temple.
There is an interest in watching how
One piece is added to another.
At least it isn’t horrible like
Being inside a hospital and really fi nding out
What it’s like in there.
So one is tempted not to include this page
In the fragment of our lives
Just as its meaning is about to coagulate
In the air around us:
 
“Father!” “Son!” “Father I thought we’d lost you
In the blue and buff planes of the Aegean:
Now it seems you’re really back.”
“Only for a while, son, only for a while.”
We can go inside now.
 
 
 
 
 
 
La tomba di Stuart Merrill
 
È la prima soir di marzo
hanno portato via le piante.
 
Martha Hoople voleva una grande ortensia gnossienne
che profumasse ovunque di Jicky per le
amiche del bridge: lo scantinato non bastava
a reggere tutta quella sfrenatezza.
 
I petit fours se ne sono andati.
 
Quindi s’alzo il Sindaco per il discorso:
il nuovo conservatorismo vi sta
seduto accanto.
Dopo che l’autobus scivolò via oltre Place Pereire
captai il riflesso del cappuccio copri-lente: i lillà
non conteranno granché, diceva.
 
Altrimenti a Parigi perché
non hai mai troppo apprezzato i miei toccasana prediletti.
Una volta ho accennato a un palliativo per le emorroidi
che non volevi provare, e nemmeno ammettere di averne provati altri.
Adesso viviamo senza o piuttosto tiriamo avanti l’uno senza
l’altro. Ciascuno di noi
vive nell’enigma
che non chiamiamo vivere
chiuso e aperto insieme.
La conoscenza può mai far danno?
E un mandato? Penso
che mi rimetterò alla clemenza della corte.
 
Stanno riportando le piante
una a una
negli interstizi del paradiso, della terra e dell’oggi.
 

“Ora sono molto attratto dal suo stile. Lei pare possedere nella sua opera un’aria di assoluta libertà d’espressione e di immaginismo, in qualche modo interessante e sconcertante insieme. Dopo aver letto una sua poesia, provo sempre la tentazione di leggerla e rileggerla. Pare che la mia inesperienza mi ostacoli nel capire i suoi significati.”

 

“Mi piacerebbe davvero capire cosa fa per conferire quella ‘carica magnetica’ alla sua poesia, alla quale il lettore
interessato, comunque in qualche misura perplesso, ritorna per averne una più limpida comprensione.”

 
I canoni crollano
uno a uno
compreso le célèbre di Pachelbel
il movimento conclusivo della sonata per violino e pianoforte di Franck.
E che ne dite di un nuovo genere di conservatorismo ermetico
e del patire crisi d’astinenza dallo stesso?
 
Diamoci una mossa
ma, e il passato?
 
Perché s’accresce solo grazie a frammenti.
Ogni sera usciamo a passeggio per vedere
come vanno i lavori del tempio.
Interessa in modo specifico osservare come
un pezzo viene aggiunto al precedente.
Per lo meno non è orrendo come
trovarsi all’ospedale e capire fi no in fondo
cosa vuol dire starci.
Così si è tentati di non annoverare questa pagina
tra i frammenti delle nostre vite
proprio mentre il suo significato sta per coagularsi
nell’aria che ci circonda:
 
“Padre!” “Figliolo!” “Padre, credevo ti avessimo smarrito
sui pianori azzurri e giallo cupo dell’Egeo:
ma adesso pare tu sia tornato per davvero.”
“Solo per un po’, figliolo, solo per un po’.”
Adesso possiamo entrare.