Anteprima pordenonelegge: Nel vortice. Il filo – Cesare Lievi


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Nel vortice. Il filo, Cesare Lievi (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2022, collana Gialla Oro).

La poesia di Cesare Lievi vive di sottili allusioni, moti interiori che procedono per intuizioni intense e improvvise, percezioni che affiorano sotto pelle (“Sotto la pelle la parola / nella carne ecco solo lì / solo se arriva al battito // la stringo, ingoio il suo resto, il buono.”) e chiedono di fluire in superficie (“dalle parole affiorano orme”), trovare articolazione in versi. È il caso di questo suo nuovo libro, che comprende una tessitura di riferimenti culturali e intertestuali che danno luogo a una struttura di per se stessa coesa e coerente, anche quando i singoli testi sembrano procedere per illuminazioni, per frammenti: assistiamo a un movimento versificatorio che procede per cambi di scena e di soggetto, via via svelati al lettore, effetti di luce e di dissolvenza, versi monologanti e recitati “a parte”, con un procedimento di raccordo che molto deve alla forte competenza e formazione teatrale dell’autore.

Uno dei temi conduttori che attraversa l’opera è senz’altro il tentativo di comprensione e di rappresentazione della complessa trama del tempo, vissuta sia come individuo corporalmente connotato sia come membro della più ampia comunità degli uomini affratellata innanzitutto dalla inevitabile mortalità, dall’essere circoscritta fra un inizio e una fine che paiono ineluttabilmente darsi. Ecco allora l’immagine eraclitea che viene rielaborata con nuova linfa nei versi di Lievi: “Il fiume scorre immobile / sul grande perno, il nostro, il suo.”, e ancora “E il torrente fluisce a rovescio, / risale la scarpata, va là dove / niente può mai tornare.”, a significare il tempo dell’uomo come linea di confine, anche se mai definitiva e certa, anzi membrana semipermeabile in cui avviene un passaggio continuo e persistente tramite il quale i vivi (o per lo meno i presunti tali) instaurano un “filo” ininterrotto, un dialogo operoso, anche se muto, con i morti (forse solo momentaneamente o erroneamente tali). Non sorprende allora il riferimento, quanto mai pregnante e pertinente, al cacciatore Gracco di Kafka, protagonista di uno dei racconti più misteriosi dell’autore, essere a cavallo o in bilico fra i mondi, in un’ambiguità irrisolta e necessaria che è la stessa alla base della riflessione filosofica in versi in questo lavoro di Lievi.

La condizione dell’esistente infatti è sempre inevitabilmente precaria, indecifrabile (“Incomprensibile la trama. / Illimitati i suoni. E sempre nuovo / il testo. Né regista / né pubblico”), assorbita e sconquassata nel vortice che tutti accomuna, ugualmente annienta e unisce nel medesimo canto, quello che spetta al poeta fare proprio, per reggerne il filo sempre pronto a infrangersi: scriverne, comunque. Tutti temi che dipanandosi in un gioco continuo di rimandi e di sviluppi, dilatandosi e concentrandosi per gradi successivi nella ricerca di un senso, bene emergono fin dalla prima sezione del libro, nella poesia di pag. 16, felice nella sua lucida sintesi e per noi emblematica tanto da proporla qui integralmente:

Quando partono, noi andiamo con loro
ma se tornano, sono soli. Siamo
noi i morti e solo perché tra le zolle
ritroviamo le nostre
 
ossa, la pelle e i passi, si rinnova
l’incontro. Ci si parla e non si dice
parola. Ci si guarda senz’occhi
e si ride dell’inutilità
 
del confine. Si vive

A chi scrive compete “vedere l’altra parte”, essere custode di ciò che apparentemente è indicibile e indecifrabile, eppure si trova alla radice dell’esistenza, e può mostrarsi solo a scatti, per improvvise aperture, movimenti di ingranaggi difficili da dominare eppure decisivi: “Concede a volte il cardine al battente / anche l’altra apertura, l’impossibile”. La figura del “custode” (o dell’angelo), essere intermedio fra i mondi, guardiano della linea di frontiera (“è lì per custodire finché c’è / da custodire. Il resto è solo vortice, / vento: ci vola dentro, ci respira”), cardine che raccorda e insieme indispensabile punto di rottura, è la chiave di volta per “aprire / il passaggio”, istituire la connessione in cui la parola cessa di essere chiacchiera e acquisisce significato, infrange la barriera frapposta, scioglie le proprie catene e libera le proprie ali, cerca la bracciata che emancipa dal vuoto, nuota con consapevolezza e coraggio nel mistero che la circonda: “Ci saranno correnti che trascinano / lontano. Guarda, c’erano dei porti.”.

In sintesi, la scrittura di Lievi si riassume in una lotta inesausta per riappropriarsi della luce, nel tentativo di attrarla a sé, irradiarla e farle prendere corpo al di fuori del buio, quel fondo inalienabile che la contorna e sostanzia: “Venire in luce. / Magari gridando. / Questo il fine, se fine è dato. E starci / amando il buio che ci contorna e nutre.” […] “Venire in luce. Ogni autunno. Ogni inverno. / Ogni notte. Proclamare la luce. / Riscaldare la luce.” La poesia diventa allora bisogno quotidiano, esercizio che è alla radice del vivere:

Scrivere una poesia al giorno. Gli aghi
dei pini danno sempre nuova luce.
danno ombra a nuove strade. Inizi.
una poesia allontana lo scuro.
E se i pini crescono e secchi poi
cadono, la poesia li pietrifica,
dà il sangue.

La poesia di Lievi è anche lucida constatazione del mondo dato, accettazione della fragilità, ricerca equilibrata di una quiete e di una serenità che si confronta con la solitudine, che conosce e sa misurarsi con la forza e la contraddittorietà dell’amore; poesia, questa, di una saggezza conquistata con le unghie, strappata brano a brano alla vita: “Quiete del trascorrere, gioia /del trascorre. Colonna su cui /poggia il tetto e il suo crollo, il cumulo /delle rovine e l’avventura d’ogni /storia.” […] “Semplice incanto vivere.”; così la scrittura assume la forma di un “Maturare e marcire in apparenza // a vanvera girando su se stessi, / forse immobilità d’acqua ghiacciata / nel palpito d’un fuoco.

Lo stile adottato da Lievi è funzionale alla sua poetica: è la cogenza del contenuto a imprimere a chiare lettere, nel fuoco, la sua forma. Frequente è l’uso delle forme nominali, della ripetizione, di un periodare breve e franto con frequenti arresti e riprese, interrogativi aperti, enjambement forti, anche a cavallo delle strofe, a sottolineare i passaggi determinanti, le svolte del pensiero: tutto è funzionale a una poesia evocativa e concisa, alla scelta di un linguaggio asciutto e non letterario, a un’argomentazione parca e mai intellettualistica; tutto per mettere in evidenza il nervo scoperto, lasciare aperto il contraddittorio, dare più punti di fuga alla variabilità della prospettiva.

Lievi infatti ha ben presente che occorre “Scrivere per comprendere il messaggio / dell’acqua nella mano. Trattenerla, / sbarrare e aprire le chiuse, osservarne / la superficie immobile, il fluire / lento o veloce tra le dita,” […] “acqua che stagna, acqua che va, il paesaggio, / il nostro.”. Forse tutto è già segnato, immodificabile, assorbito nel vortice che tutto richiama a sé, “IL FILO È ROTTO”, irrimediabilmente, ma resta “la bellezza di quel volo, il piacere, / il brivido delle ali, / della fuga, della sua vanità.”: basta questo a far sì che questa sfida meriti di essere affrontata.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
1
 
“C’è. Lascia libero il passaggio:
il dentro, il ventoso, il profondo
il chiaro è lì che s’incontrano.
Bruciato il luogo e forse il tempo, i vivi
 
nutrono gli assenti, gli stanchi
e la voce che non cede. Bruciato
il tempo e forse il luogo, i morti
siedono al tavolo, bevono vino.”
 
 
 
 
 
 
2
 
Puntava l’angelo custode a volte
un coltello contro il mio petto.
Il respiro si bloccava e la lama,
sudicia, suggeriva quiete, fine.
 
Rifiutata pronunciando parole
indifferenti. Voce. Voce. Suono.
L’inesattezza d’un corpo (colpa
e innocenza) l’artefice, il rifiuto.
 
 
 
 
 
 
3
 
Durata delle cose. Inizio e fine
delle cose. La tavola. La sedia. Tu
che ci dondoli sopra. Il sole è tiepido
oggi, e odora di aranci fioriti.
 
Si consumano durando. Spegnendosi
vivono il loro trionfo. Sono e
non sono. Se le blocchi in un istante
senti un cadavere. Con le tue mani
 
lo plasmi.
 
 
 
 
 
 
4
 
Vede il suono, il guaire degli animali
di notte quando c’è
la serrata degli umani e d’intorno
tutto è così diverso, così puro
 
che le cose si scambiano l’immagine
senza dolore. Mutano: muoiono
e divengono di nuovo. Lui sente
tutti i passaggi. Nel suo battito
 
li vive.