Anteprima pordenonelegge: Culo di tua mamma – Alberto Bertoni


Culo di tua mamma (Autobestiario, 2013-2022), Alberto Bertoni (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2022, collana Gialla Oro).

L’ultima fatica letteraria di Alberto Bertoni, dal titolo provocatorio Culo di tua mamma, si presenta, da subito, come un auto-bestiario, un irriverente censimento delle plurime caratteristiche animalesche che riguardano ogni singolo animo umano e l’umanità tutta nella sua sfaccettata interezza.

Oltre la significazione metaforica, nel cuore delle similitudini utilizzate lungo l’intera opera, c’è una ricerca spasmodica delle caratteristiche dell’io nella diversità più trasversale tra creature, come se la spiegazione delle proprie fragilità non possa che svolgersi attraverso il confronto con altre specie, altri soggetti, altre condizioni esistenziali del tutto differenti dalla propria, eppure simultanee: “Chissà perché ti associo,/caro il mio brocco,/nella mia mente al mio disordine”.

La nominazione toponomastica (“strade dei giochi d’ogni giorno/Circonvallazione Sud, via Salvioli, via Baraldi/perso nella sera sibilante/di zanzare e rane”) crea una circoscrizione spazio-temporale della parola capace di sublimare l’esperienza privata in una impressione di quotidianità collettiva non priva, però, di dettagli unici e infungibili che sanciscono l’appartenenza univoca alla sfera memoriale individuale: “Marcisce a poco a poco/sarà immangiabile in meno d’un giorno/la mela raccolta a Castelnuovo/che stringe mio padre fra le mani”.

L’ulteriore ricordo di un amico intimo riaffiora nel verso come un guizzo di nostalgia in una situazione di fittizia calma vacanziera, tra contrizione e sarcasmo. La poesia – con un tono quasi autoironico- all’interno di una forza centripeta azionata dai cardini della storia, della biologia e del denaro – diventa la pre-dizione dell’azione, l’escatologia di un destino troppo umano per non sembrare bestiale.

L’immagine della marea che si alza e si abbassa e che “regala all’ostrica la grazia/di essere creata e subito mangiata” è metafora dell’irrimediabilità dell’impermanenza che coglie l’uomo – animale fra gli animali – con la satirica epifania delle ovvietà a cui ci si può abituare, “ma non abbastanza”.

Alcuni testi appartengono a precedenti raccolte del poeta ma risultano capaci di adattarsi al nuovo contesto e di rivivere una nuova vita filologico-gnoseologica: appaiono come nuovi anche se li si conosce da molto tempo, proprio come le specie animali di cui non si smette mai di imparare l’adeguamento darwiniano all’ambiente che l’uomo stesso continua a modificare.

La visione del poeta intercetta i dettagli, li rende macroscopie dell’assolutezza del frangente, ne trae un discorso letterario che, a vari gradi, oltrepassa il dettato testuale e smista le intuizioni psicologiche tra i vari percorsi ermeneutici possibili. Dalla minimalità semplice e ingenua delle piccole cose e delle piccole vite si deduce- per diagnosi differenziale – l’astrusa realtà dell’universo antropologico “troppo umano/femminicida, adultero, baro”.

L’uomo si interroga sulla questione della morte a partire dalla somiglianza con la mortalità degli altri “animali da trapasso”, attraverso similitudini e parossismi antinomici specifici della condizione di precarietà dove sentirsi “resti indecifrabili di sogni,/sparute in genere ed assorte/sillabe roche”. Il linguaggio partecipa della dimensione empirica della realtà, ne stabilisce l’indefinibilità sincronica e diacronica, ne accompagna la storicizzazione letteraria e sociale.

I cenni apparentemente ambientalistici, tra i versi, non sembrano delineare un discorso prettamente ecologista, richiamando a una più acuta e vibratile psicologizzazione dell’ambiente degradato, nonché alla conseguente riflessione sulla decadenza del nostro habitat etico ed interiore. Una ri-naturalizzazione dell’ecosistema antropologico è una suggestione forte quanto utopistica e, ciò, traspare fortemente dalla vena sarcastica con cui l’autore descrive i paesaggi da auspicare (o temere).

Una visione panica dell’indivisibilità tra creature ipotizza l’accettabilità del caos in cui “ogni corpo/avrebbe un peso diverso”. La scienza, con le sue spiegazioni, non compensa “i salti pericolosi” della natura in cui la salvezza sembra appartenere solo alla parte, e non all’insieme. Si percepisce, però, una sorta di sopravvivenza relazionale, reciproca.

Il luogo comune si riappropria della sua saggezza primordiale, la quale – quasi infantile ma attualissima – è straziante: “non sai che appena/lo nomini, un cavallo non conta più nulla?”.

La citazione e la traduzione diventano fondative e, insieme, interpretative. La parola poetica riunisce autori e testi, tutti insieme a cantare il bestiario della specie meno umana di tutte, l’uomo.

Chi ti piace in questa corsa?”/”Culo di Tua Mamma”, l’ho informato/ma non appena si è messo/a cercarlo sul programma/me ne sono andato” è la traduzione di una poesia di Charles Bukowski, nonché una specie di predizione destinale tra l’umorismo e l’indolenza.

Ricorre il topos dell’Alzheimer che si accosta alla riflessione sullo stato di emergenza sanitaria per il Covid. Le malattie sono accomunate dal silenzio, “quello vero/non è scritto in nessun elenco”.

I topi, protagonisti clandestini della precedente silloge di Bertoni (L’isola dei topi, Einaudi 2021, due recensioni QUI e QUI) continuano ad abitare (e rappresentare) il sostrato sociale ed emotivo di una vita umana solitaria, infestata e infestante.

Ritratti di un’umanità ancora molto bestiale si svolgono per accostamenti ad animali non umanizzati, affinché emerga di ogni specie – ma soprattutto di quella dotata del pollice opponibile – la franchezza della ineluttabile nudità emotiva, nonché quella nota di degrado bio-etico, istintivo, che è insita negli esseri viventi.

La musicalità dei testi si ripercuote attraverso la loro prosodia intrinseca, progressiva nel rimema e nell’allitterazione che agganciano alcuni versi tra loro, ne separano altri e riproducono un flusso discorsivo che attinge la sua ampia fruibilità dall’esperienza comune e più condivisibile.

La riflessione sulle caratteristiche politiche della specie umana viene posta, nei versi, in modo lineare, ironicamente induttivo sulle silenziose barbarie che si perpetrano nel rituale di una normalità mostruosa: “così nessun fatto, nessun altro/animaletto domestico/e per l’appunto nessun libro/fa né farà capolino/nella casa del fascista”.

Parallelamente alla speculazione sociale, si svolge un soliloquio che estrae dal paesaggio architettonico-urbano la sagoma di quella urgenza esistenziale dilaniata tra i ricordi e la finta normalità del quotidiano: “s’incide la giostra degli animali /romanici e mostruosi /in fuga stamattina/dai bassorilievi del duomo/alla cui ombra ogni giorno rinasco (o almeno ci provo)/e che invece sono solo/fulminee emanazioni dei miei morti”.

È come un flusso locutorio confidenziale che, con un linguaggio ricco di onomatopee, termini e locuzioni dialettali, modi di dire (e di dirsi), citazioni e una precisa nominazione oggettuale, appronta un discorso poetico fluido e familiare che non tralascia riferimenti autobiografici ed espliciti dettagli situazionali.

L’uomo osserva sé stesso nella figura dell’altro che rappresenta la congiunzione linguistica e fisica della vita e della morte: “Di te, però/l’improntitudine e lo slancio /aveva amato/l’inizio e la fine del discorso”.

L’individuo contemporaneo ha dismesso la vocazione riflettente dello specchio per quella opacizzante del parabrezza di una macchina: “Vedo l’altro me stesso/non allo specchio ma dietro/un parabrezza cieco/piegato sul volante/contro l’ultimo raggio”.

È un’opacità della visione che, però, non fa rinunciare alla constatazione della bellezza di una donna – e al canto d’amore non privo di un sostrato di forte cinismo.

Nella partecipazione parzialmente volontaria dell’uomo al “felpato assedio zoomorfo” del suo spazio esistenziale, come profezie o rituali propiziatori continuano a succedersi riferimenti sportivi, ricordi di viaggi e trasferte, esercizi di flânerie. In tutti questi spazi che hanno assistito al transito occasionale o abituale del poeta, la dimensione pubblica incontra – e si scontra – irrimediabilmente con quella privata.

L’eco leopardiana si rinnova nei toni di decostruzione beat e si rivela in quel “fingersi farfalla nel pensiero/ma il giorno dopo baro”, verso presente nella poesia conclusiva con cui Bertoni indaga la propria “genesi” riferendosi, forse, a un possibilismo (più o meno volontaristico) ontologico di respiro universale.

La folgorazione dell’unità tematica che completa e conclude questa raccolta antologica non riguarda gli animali non umani – pur presenti a vario titolo in ogni testo – ma l’animalità antropologica, mutevole e drammaticamente farsesca, dell’unica creatura capace perfino di scrivere poesia.

Gisella Blanco

 
 
 
 
Una larva

a Giampiero Neri

 
Oggi ho partorito una larva
dal polso mentre guidavo
prima un’ala poi l’altra
chissà dove incubata, chissà quando
 
Per un momento sono stato il babbo
anzi, la mamma della larva
finché non hanno detto basta
l’aroma di pipì nell’aria
della mia casa, il
dentifricio che manca
o la risacca di carta
per terra e negli infissi
morta la larva adesso, annichilita
dalla pressione di due dita
 
 
 
 
 
 
Animali nel momento della morte
 
… il problema è come
dopo la morte riascoltare
chi di una storia ci ha svelato
i dedali infiniti delle tane
intanto che i parchi
gli incroci i profili delle case
urlano implorano piangono
tutte le sagome più care
 
Come farfalle inchiodate
o come talpe quando vanno a cozzare
contro la roccia naturale,
dura e minerale
siamo animali da trapasso,
reliquie abbandonate
nelle scatole da scarpe
o resti indecifrabili di sogni,
sparute in genere ed assorte
sillabe roche
 
E alla fine le loro
ombre distorte
 
 
 
 
 
 
Horse fly
 
Il ragazzo coi brufoli e il berretto alla rovescio
mi è venuto vicino all’ippodromo
e “Chi ti piace?”, mi ha chiesto.
Io gli ho risposto: “Non sai che appena
lo nomini, un cavallo non conta più nulla?”
Lui ha fatto come se
non mi avesse sentito: “Chi ti piace
nell’accoppiata in ordine?”
“Non scommetto sulle accoppiate in ordine”,
gli ho detto. “Perché?”, ha insistito.
“Perché prelevano il 20% del montepremi”,
gli ho risposto. Lui di nuovo ha fatto
finta di niente. Allora,
tentando di togliermelo
una volta per tutte di torno, ho aggiunto:
“Io non scommetto
su doppi, multipli, quinté
e quartè.” Tutto inutile. E alla fine:
“Chi ti piace in questa corsa?”
 
“Culo di Tua Mamma”, l’ho informato
ma non appena si è messo
a cercarlo sul programma
me ne sono andato.
 
[da Charles Bukowski]