Anteprima pordenonelegge: Alfabeto morse di novembre – Marina Corona


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Alfabeto morse di novembre, Marina Corona (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2022, collana Gialla Oro).

Il nuovo libro di Marina Corona, Alfabeto morse di novembre (edito nella collana Gialla Oro di Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022) allestisce un mondo di personaggi e simulacri, di scenari reali e fantastici, con una continua variazione di piani e un andirivieni ininterrotto tra passato, presente e futuro. Dal dialogo con gli assenti al resoconto introspettivo c’è come una sfida da parte dell’autrice, un piglio interrogativo che non teme di affrontare le risposte o le visioni più inquietanti.

Nella prima sezione, introdotta da una citazione di Eliot da Portrait of a Lady, si mostra subito un’attitudine all’espressione ancipite e una tensione enigmatica, sia nel titolo, Il burattinaio e l’ombra, sia nel testo che apre la raccolta: “Due lampioni: a destra, a sinistra / dall’incrociarsi dei raggi / sulla pelle una macula nera fra le sopracciglia. / […] / e l’insetto alla radice della fronte s’incide / rade i pensieri lima, affila, falcia.” (Da dentro). In questi versi si condensa un carattere, un profilo poetico inconfondibile: con un linguaggio dal tono ora intimo ora sferzante, ora tenero ora tenebroso, la poesia di Marina Corona si fa portatrice di un immaginario composito, che attinge all’esperienza quotidiana, ai suoi elementi concreti, e al contempo si popola di maschere, simboli, parvenze di un mondo avvertito forse come più reale di quello esteriore. La necessità dell’incontro (o anche dello scontro) con l’altro da sé si esplicita in una insistita dualità, nel costrutto bifronte del discorso. Nella poesia Quei due l’occorrenza di segni duplici diventa il leitmotiv della descrizione: “Adesso vivete dietro la luna / in una casa di mercurio: / due stanze, pareti a finestra che danno / sul bianco lattiginoso spolverio del niente. / […] / Eravate un candelabro a due braccia / due fiamme di luminescente tepore / […] / io vi intravedo come foste due figure / di vetro soffiato / dal fiato cosmico degli spazi”. Poi la dualità assume la forma dell’apostrofe, da un lato il soggetto che parla, dall’altro la figura convocata, che il più delle volte assume sembianze dai connotati sinistri (burattinaio, cavaliere del ghiaccio, padrone, negriero, carceriere), fino ai versi lapidari de Il signore: “Dilava la nebbia sul tuo viso di cartapesta / signore dei terribili pennacchi della festa”.

Alfabeto morse di novembre è la sezione centrale e non a caso dà il titolo al libro. I toni taglienti e surreali della prima parte ora sono stemperati dalla presenza pervasiva del paesaggio, di una natura che accompagna lo scorrere dei giorni umani attraverso i mutamenti delle stagioni. In esergo un’altra citazione di Eliot (da Four Quartets) conferma la disposizione meditativa. Il racconto non è meno umbratile, tuttavia il linguaggio si distende, l’io depone le sue armi in cerca di un riparo, seppur parziale e temporaneo, nei ritmi della natura, nelle sue manifestazioni lontane dagli affanni umani. C’è un codice da interpretare, un alfabeto cui accordarsi, senza filtri e infingimenti, basta disporsi all’ascolto per trovare corrispondenze: “La mia lampada è l’anima della sera / mi acciambello al suo biondo fiato, / è di resina la mia pelle, / al di là del vetro / l’albero intriso di lucide gocce / ha foglie fradice, stellate / – alfabeto morse di Novembre / in oro e argento – / tepore e pioggia, alfabeto sfuggente / al buio venire della notte.” (La serranda). Il passo si fa cauto, paziente, lo sguardo si distoglie dall’esterno per rifugiarsi tra le pareti della casa, mentre i mesi, sempre indicati con la maiuscola, assurgono a paradigmi di uno stato d’animo, di un sentimento che non esclude, piuttosto unisce nella medesima condizione di fragilità tutti gli esseri viventi: “Settembre, io sto al di là della larga mattina / che rintocca in note amaranto, / una luna calante è la mia guardiana, / con un raggio mi tiene per la chioma / e m’inchioda alla notte / mi fa dormire in una culla di tela di ragno.” (La culla).

Nella terza e ultima sezione, dal titolo Il gong lunare, l’esergo da una poesia di Yeats (The Sorrow of Love) pone un ulteriore accento sul dolore e sulla transitorietà dell’esistente. Le poesie dedicate agli affetti, presenti o perduti (Al padre, Alla figlia, La nonna, La madre), e ad altre figure emblematiche (Arianna, La tessitrice), si stagliano con l’evidenza e la commozione che solo la luce del ricordo sa dare. Si rende chiara così la volontà di risarcire attraverso la parola poetica un destino di finitudine e di richiamare le voci degli assenti, catturando i bagliori di una vita non più vita nei tratti inconfondibili di ognuno: “e se brilla un cristallo nella pietra / è il tuo viso atteso, è l’eco del tuo riso”. (Il calabrone). Non si può nulla contro il silenzio definitivo. O forse sì. È alla poesia che Marina Corona affida l’ultima parola: “Alta è la stanza del silenzio / dove giocano le nostre ombre bambine / tu porti me a te, io ti tengo” (Mattino).

Daniela Pericone

 
 
 
 
Il burattinaio
 
Quest’ora si slancia oltre i balconi
nell’aria chiara e trema e si frange
oltre me oltre te, sul secco selciato.
una lama affilata ci ha tagliati:
tu alla porta destra io alla porta sinistra
del vuoto palazzo dove batte il gong
fino a spaccare.
Il collo ha perduto l’anello vertebrale
la testa cade in un inchino,
che regge un raggio filiforme di sole,
e dice: “sì sì sì io burattino”
e tu burattinaio ti allontani
col passo piatto, cordami alle mani.
 
 
 
 
 
 
L’ombra
 
Di te era rimasta la buccia
scura come una carruba: l’ombra,
recisa con le forbici dal margine dei piedi,
staccata dalla suola delle scarpe,
afferrata con due dita a pinza
l’ho buttata nella cesta dei rifiuti,
al piovasco un rigagnolo la spingerà nel tombino,
mi passerò la mano sulla fronte
a cancellare un pensiero
e una rondine volerà oltre l’orizzonte.
Cavaliere del ghiaccio che ti sciogli
nella nebbia della città,
cuore inghiottito,
e mi si forma a partire dalle labbra
un viso di Madonna ridente.
 
 
 
 
 
 
L’uno e l’altro
 
Adesso tu hai preso la strada lontana
e hai lasciato impronte nere
incatramate al di là delle tue buie spalle,
l’altro, il giocoliere,
è caduto nell’orto di sterpi tra le spine
ha lasciato una nuvola grigia sopra di sé
a rammemorarlo con lacrimante pioggerella,
siete due belle estati sottoterra,
da voi spuntano libellule
vibranti trasparenti messaggere
dicono: “non piangere
ogni cosa è a un tempo sottoterra,
tu sei per ora fatta d’aria solo a metà”.