L’isola dei topi – Alberto Bertoni


L'isola dei topi - Alberto Bertoni

L’isola dei topi, Alberto Bertoni (Einaudi, 2021)

La flânerie del poeta contemporaneo riconduce la poesia e la poetica a una percezione panica della vita, attraverso quelle pratiche etiche del “Rendere strano e Spingere da parte” che, dal Novecento, non hanno mai smesso di influenzare gli intellettuali più sensibili al momento presente – ben collegato alle ere trascorse – e meno coercibili dal settarismo della mera attualità. Alberto Bertoni, nella sua opera L’isola dei topi (Einaudi, 2021), con le molte sezioni dai titoli evocativi e celebrativi (Alberi e bestie; Case; Milieu; Avvistamenti; Brindisi e dediche; Was War (ciò che è stato); Canalchiaro), svolge una lunga e articolata riflessione sull’esistenza dell’individuo all’interno del reticolo bio-psicologico e storico della società.

Lasciare andare i ricordi può essere un atto di memoria cronicizzata, un’azione di inchino a ciò che è stato transeunte e di resistenza nella fibra spessa di ciò che non muta: “E così, rimanendo tali e quali,/fruste di salici, ali/potremo all’infinito ricordarci”. Non c’è, d’altronde, resistenza più strenua che sapersi ricordare nonostante le Metamorfosi. I cambiamenti delle cose nel tempo, reali o immaginari che siano, producono la sensazione che le esistenze si incrocino tra loro su piani ontologici inclinati da cui scivolano nel vuoto: “Ma se è vero, pensa/quali e quanti stabilimenti balneari/sorgeranno nei quartieri eleganti/di Sant’Agnese e Buon Pastore/anche se per me, confesso/lo stesso non è bello/di qualcosa pensarmi spettatore/che vivrò solo da morto/non importa se nel Duemilaecento/o poco dopo…”.

Il lutto – personale o collettivo, reale o simbolico – è un tocco lieve della realtà alla luce – o all’illuminazione -sulle cose. Il poeta osserva sé stesso mente guarda il viso ignoto dell’alterità: scopre, attorno a sé, molte ombre in cui sorprendere la propria estraneità. La memoria continua ad aggrapparsi al silenzio delle ultime luci del giorno, inaugurando una fuga naturale verso il cuore della terra che, per avventura, coincide con l’anfratto cavernoso della propria remota coscienza. Il morbo di Alzheimer è una lingua divergente, incompatibile, assoluta nella sua frammentazione drammatica. La salvezza “cade nella tana”, scivola in quel nucleo di terra buio, solitario e non comunicante. Si attua una guerra tra solitudini e linguaggi perduti: “Poi la chiamiamo Alzheimer, questa cosa/questa lingua totalmente straniera/senza più stare insieme senza/più ridere scherzare/aspettare con calma/la salvezza che cade/nella tana”.
Che cos’è il linguaggio se non la narrazione del dolore sui bordi smerigliati della ferita o sulla bocca che soffoca nel suo stesso fiato? La lingua è “molto più grande del mio corpo”, non sa migrare, invecchia e non conosce che il desiderio di qualcosa che non sa.

La gestualità delle abitudini quotidiane, come recarsi a fare la spesa al mercato, rappresenta l’epifania di una visione nostalgica, tesa alla scomparsa, perfino nichilista nel ricercare l’essente nell’inesistenza e viceversa: “e il mondo è malridotto/qui, nel mercato di Ferragosto/dove al bordo di me stesso/mi accampo, esito, trascorro” cosicché “so solo che non voglio/non voglio e non sono”.

Un bestiario variegato (topi, cani, scoiattoli, gatti, insetti, etc) brulica nei sotterranei ontologici e civici dell’uomo che, in sé, raduna ogni specie e disperde la propria. Le bestie trepidano, si schierano tra di loro e contro l’uomo, si rivoltano similmente all’ecosistema orwelliano, come nei disaster movies che raccontano realtà distopiche di cui segretamente si teme l’avvento. Sembra che in ogni ingranaggio psichico ci sia un animale a simboleggiare ciascuna funzione comportamentale dell’individuo e delle sue facoltà relazionali.

La morte appare come una specie della specie, è una chimera recondita, sfuggevole, perennemente evocata ma intangibile, lontana. Ecco che l’atto della scrittura rappresenta un tramite tra presenti e assenti, e tra l’uomo e i suoi ricordi: “in attesa dei fantasmi/che sventerò scrivendoti/sugli slabbrati margini del diario/estraneo dopo molti anni/all’essenza segreta del tuo tempo/ai tuoi spazi”. Nei versi di Bertoni, è la “ricerca della chiave universale del linguaggio” che lascia libero il paesaggio in un rimema ironico che, tra una citazione e un pastiche, chiama il lettore (e il poeta stesso) all’ordine delle categorie filosofiche necessarie alla sopravvivenza. Fra la “tragedia e il gioco”, nella dicotomia quasi perversa del dramma della vita (umana o di altre specie animali), la parola poetica interpreta un macabro sarcasmo sull’esercizio a morire, sulla resa all’altrui volontà che identifica una volizione originaria alla solitudine o alla purezza spirituale. Eppure, il Nome – storia personale e collettiva – sopravvive come certezza di ritrovarsi nella notte. Ancora una volta emerge una radice di resistenza al fato, possibile perché condivisa.

Scrivere è quell’azione mitopoietica che riscalda dal gelo esterno come un cappotto. La poiesi letteraria conchiude l’arte del silenzio nel bianco della carta, il vuoto del non dicibile nell’atto della scrittura. Compaiono, tra i versi, binomi antinomici o, semplicemente, estranei tra di loro, che persistono fino all’esaurimento del sogno nell’atto creativo e rigenerativo: “Alla fine sulla pagina mi muovo,/scivolo cauto, riprovo/fino a quando non so/più cosa farmene di un sogno”.

Il verso, attraverso rime e allitterazioni volontariamente occasionali, rinuncia a parole antiche, affondate in un disuso inconscio, per recuperarle nell’immagine di una strofa dalla forma a scaletta discendente, come a voler attribuire impronta visiva alla lontananza:

 

Tante parole le ho già disimparate,
nei recessi dell’incuria abbandonate
e passi per le lingue scientifiche
o politiche o sportive
ma anche le parole che nel tempo
sono state le più semplici provviste per l’inverno
Madre
         Sarta
                  Maestra
                           Quaderno

 

Una riflessione sull’oggettualità si innesca nel discorso poetico che sonda le molteplici stratificazioni empiriche della vita, riconduce la cosa alla sezione Casa creando, così, una nominazione paronomastica (Case – cose) che va in cerca di tracce umane. Se, nella maggior parte dei casi, è l’uomo che fa uso delle cose, è nell’ improvvisa commozione del ricordo – della rievocazione provocatoria agita dalla memoria – che accade la rivoluzione dell’oggetto sovvertitore del soggetto. Così, l’uomo inizia a temere l’uso dell’oggetto che, animato dalla stessa azione umana, sembra iniziare ad agire al posto dell’agente: “Ma come sanno vendicarsi, loro!/Un inciampo improvviso del tono/le scioglie nel più roco/sprofondo della voce,/pretende che le cose/conversino al mio posto/dall’angolo di mondo più remoto”. La letteratura, d’altronde, suggerisce e parodizza come l’uomo appare, mettendo in risalto ciò che è.

Gli insetti, qui liricizzati come corpuscoli creaturali dal moto incontrollato, emulano i rigurgiti coscienziali, imbrattano l’individualità con l’abbandono alla relazione. L’istinto è una radice atavica che raggiunge il centro metamorfico dell’essente e lo rivela: “Ma i movimenti degli insetti/se ti arrivano addosso/li incorpora il tuo sangue come larve/o metamorfosi lontane”. Presenze plurime continuano ad affollare le strofe dell’opera, riproducendo una coralità accorata e disarmante. La scomparsa, vagamente violenta per mano amica, della gatta di casa, richiama la prescrizione destinale inevitabile che non rispecchia – non sempre – la serenità attesa o meritata.

La sezione “Milieu” si apre con un ricordo, un ritratto parentale veloce in cui la lingua italiana viene presentata come ulteriore confusione lessematico-espressiva rispetto alla loquela dialettale. Nell’età contemporanea l’epica del quotidiano è estenuata, fibrosa, inviluppata nel ricordo del passato appeso tra l’evento tragico e il rammarico per il fulgore mancato appena. La città appare come un racconto di piccole cose, un agglomerato di fessure e spaccature, un tripudio di inesattezze, imprecisioni, ingorghi emotivi che scivolano sui marciapiedi infangati. La visuale si apre a partire dal dettaglio visivo, perfettamente coincidente con la relativa percezione etica. Affiora un bisogno di parola che rinverdisce la metafisica dell’esperienza del suono – e della sua assenza – in una dimensione liberata dalla morale religiosa e calata nella codificazione spirituale di una fonazione da condividere. La poesia d’amore incontra la filosofia del linguaggio come rami diversi di uno stesso albero profondamente radicato nella poesia.

Il paesaggio si ri-assembla nello sguardo dicente, sembra ri-nascere dall’occhio che tesse la narrazione del reale in cui il perimetro evanescente della colpa è sempre più inimmaginabile: “Il paesaggio è come sempre/nel mio sguardo/e racconta di acque/tremolanti fra le piante/tutt’attorno al perimetro/oggi solo immaginario/di un lungo, lontanissimo peccato”. Al Parco della Resistenza una rosa sboccia in mezzo alla battaglia atavica tra la morbidezza dell’erba e la durezza della roccia ma l’avvento della visione si compie soltanto in una umanissima molecola di pianto, infinitesimale e assoluta: “Molecole di pianto sul tuo viso/gli edifici, i parchi, le persone/quando l’aria è quel manto/d’erba in guerra con la roccia/dove una rosa sboccia”. Il dato realistico si compie nella memoria, estrae l’abitudine al vivere dalle stratificazioni esistenziali che si accalcano nel passare del tempo, della storia, dei destini che sfuggono per gli “antichissimi sentieri” della parola poetica.

Lo spirito flaneur emerge anche nell’osservazione del mondo dalla propria casa. La “vita degli interni” casalinghi trae il colore da fuori, lo conosce attraverso l’ambivalenza della separazione, del bordo smerigliato tra l’interno e l’esterno dei due piani espressivi della luce che sagoma la realtà.

Impeti di acuto lirismo si mostrano nella loro intensità radiante tra il dettato della memoria e la nostalgia per i legami che, dal passato affettivo, confluiscono nel presente, proprio quando è l’ordine temporale a sorvegliare l’uomo e a coglierlo nella flagranza della sua fragilità: “Le giornate ti avvistano negli angoli/più innocui/e ti presentano conti esagerati,/sintonie mancanti”. Le poesie abbandonano il punto fermo, forse per focalizzare l’attenzione sulla impossibilità di frenare il respiro poietico all’interno del singolo eloquio.

Il repertorio bellico si perpetua nella scansione temporale di ogni era. La facies dei nazisti ricompare, quasi lombrosianamente, nei visi dei bambini, li conduce all’atrocità dell’innocenza che pure non dispregia la violenza su chi è ancora più innocente (e inerte). La sopravvivenza è una felicità tragica che si condivide attraverso ritualità macabre che rievocano atti della tribù sociale identificativa d’ogni tempo.

La pronuncia del nome dell’amato, di un caro o un amico è la misura dell’individuazione dell’io narrante e dell’io narrato – talvolta coincidenti con il tu – che rielaborano il pensiero della morte attraverso l’impunità di una luce capace di sorprendere il buio dell’abitato e di renderlo enucleabile da tutto il resto: “Invece, nessun profilo,/ombra di persona/senza dar segno la gatta curiosa/che sia filtrato un alito/un tremito di vento/dalla fessura che ferisce il buio/scacco matto del sole al pavimento”.

In “Brindisi e dediche”, il dialogo con amici, letterati e parenti si infittisce. Ci si domanda della mortalità della natura, dell’effervescenza delle piccole occasionalità fortunate della vita. Il sentimento di accorata simpatia – nell’accezione originaria di compartecipazione emotiva al dolore- si interfaccia con scorci paesaggistici e descrittivi che ancorano la narrazione alla realtà fenomenica e, al contempo, permettono di estrarre il fenomeno dell’esistenza dalla possibilità di raccontarlo.

I topi, la cui presenza è massiccia nei versi finali, “ballano, chiaro/sulle onde di ogni/umano naufragio”. I topi emergono dal sottosuolo, ripopolano la coscienza, rivisitano il topos marxista-confessional (e latamente ambientalista) dell’ape letteraria, navigano -in orde incontrollate- la ferocia della quotidianità umana. Il loro involontario presenzialismo sembra costringere l’uomo (e la poesia) a mantenere la visuale sulla storia, sul sincronismo delle epoche politiche e su quella struttura etica necessaria – benché mutevole rispetto ai tempi – a conservare l’individualità nella pluralità e la collettività nella personalità.

Gisella Blanco

 
 
 
 
Cose
 
Non è vero che vengono
velocemente dimenticate
 
Che si sciolgono come neve al sole
senza lasciare orme senza mai più
essere sognate (o narrate)
 
Che sono puri fiocchi di fuliggine,
non portano da nessuna
parte e vivono come tatuaggi
di cicatrici lontane
 
Come fantasmi, come multipli di zero,
come essenze del nulla, del non
essere che saremo
presto
 
Vili materie e tracce
tutto sommato umane
 
 
 
 
 
 
Insetti
 
I movimenti degli insetti
li intuisci dopo
con la coda dell’occhio
 
Memorizzarli è questione di attimi
turpi o leggiadri
e cosa importa se ragni,
farfallette o api
coi loro fili, le aeree
filigrane delle ali
 
Alla fine anche i prismi degli sguardi,
le feritoie delle bocche
 
Ma i movimenti degli insetti
se ti arrivano addosso
li incorpora il tuo sangue come larve
o metamorfosi lontane
 
 
 
 
 
 
Balconi
 
Io lo so che per una questione
di angolature e di spigoli
forse in virtù della naturale
curvatura della crosta terrestre
noi vediamo le stesse sfumature di celeste
riverberare i massicci appenninici,
addensarsi le stesse nuvole,
intuirne i rovesci
 
Il rimbombo, l’istante, i lampi sghimbesci
e più  di rado
la compattezza delle nevi
come scendono lievi
fino in fondo ai balconi
alla vita degli interni