Anonimie, Massimo Pamio (Edizioni Mondo Nuovo, 2023).
Quello dell’autoantologia è un percorso difficile da intraprendere, sia che si tratti di una scelta editoriale sia che si tratti di una scelta d’autore, strettamente privata. Al contempo, però, vi sono diversi autori o editori che optano per questa strada. Lo dimostrano diverse operazioni, dato che casi editoriali di questo tipo si sono diffusi durante gli ultimi anni. Ebbene, per muoversi agilmente tra i libri che ogni anno affollano sempre più gli scaffali – virtuali e no – delle librerie nostrane, sarà utile riportare l’esempio di una pubblicazione al contempo tanto eclatante quanto recente.
Si pensi a tutta l’operazione editoriale sottesa al volume definitivo di Maria Luisa Spaziani (Torino, 7 dicembre 1922 – Roma, 30 giugno 2014), ovvero ad Autoantologia. Poesie 1954-2006. Questo libro, frutto di un percorso intrapreso al tramonto degli anni Settanta del secolo scorso, è poi approdato a una pubblicazione nella collana degli Oscar Mondadori nel 2011, per diventare solo nel 2022 oggetto di una ristampa nella collana Lo Specchio di Mondadori.
Tra gli altri casi di recenti autoantologie è possibile menzionare un paio di recenti pubblicazioni. Si pensi in primis a Culo di tua mamma. Autobestiario 2013-2022 (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2022) di Alberto Bertoni, un libro che ha già fatto molto parlare di sé; libro in cui l’autore – come ha specificato Matteo Bianchi – «rintraccia i tratti della bestialità in sé e negli altri», giacché «la poesia deve tradurre la soggettività dell’individuo». Una seconda vicenda editoriale, lontana dal riferimento ai bestiari ma attento all’ambiente, prosegue in questa direzione. Si tratta di un libro fresco di stampa, Anonimie, dell’abruzzese Massimo Pamio (Tollo, 1958). Il libro è uscito il 13 gennaio 2023 per le Edizioni Mondo Nuovo di Pescara. Ciò che differenzia quest’ultima vicenda editoriale dalle altre sopramenzionate è anzitutto la presenza di una lunga, iniziale antologia di letture critiche – firmate da Giovanni D’Alessandro, Rossano De Laurentiis, Daniela Forni, Erika Gazzoldi, Renato Minore, Elio Pecora –, assieme ad una lettera di Gabriella Sica.
Anonimie di Massimo Pamio è un poema, nonché una ricerca metafisica, che abbraccia dieci anni di produzione poetica autoriale. Esso si presenta come un agglomerato di testi composti tra il 2010 e il 2020. Nel suo poema, Pamio usa le parole come se fossero ago e filo per ricucire una visione; inoltre, egli ricorre spesso all’endecasillabo sia ipermetro che ipometro. Il libro è particolarmente interessante dal punto di vista filologico, perché esso costituisce uno «squarcio sulla “filologia d’autore”» (p. 21), come ha notato Rossano De Laurentiis, il quale scrive peraltro che le «varianti instaurative segnalate da [Daniela] Forni obbediscono ad una contrazione del testo» (p. 22). In sostanza – continua De Laurentiis –, Pamio ha confessato di aver modificato più volte i suoi stessi testi ed «è pertanto la prima stesura di quella “verità del paradosso”, uno dei leitmotiv della poetica di Pamio» che ne paga le conseguenze (p 22).
Un componimento poetico particolarmente interessante di Pamio è quello che riflette maggiormente sulla scrittura e sullo stare al mondo, per la precisione si tratta del testo collocato in Immagini (2016-2019), alle pagine 196-197:
(poesia è cucire in nome dell’altro)
con punti a croce e con l’ago
trapassare la cruna della vita
le ferite giammai rimarginate
e scorre il sangue nero dell’inchiostro
(scrivere con le proprie croste)
non finirò mai d’inventare il gioco
a cui sono stato chiamato un giorno
quando sostavo distratto in panchina
felice e poi di colpo traghettato
nella lotta più accesa nello scontro
d’una battaglia persa già in partenza
scrivere è chiedere scusa a se stessi
d’essere nati per vincere al nulla
(ma chi mi ha chiamato?)
resto con la mia assenza
vorrei evitare mi scusi
per favore non ci tengo non è
così necessaria la mia presenza
mi rispondono: l’importante
non è vincere ma partecipare.
Questo cucire in nome dell’altro ricorda l’amore-suturazione, quella sottospecie di cantoplàstica alla Marina Cvetaeva che aiuta a riaprire gli occhi sull’unione possibile tra sentimento, poesia e vita dove ciò che conta non è più la difesa, bensì la guarigione.
L’essere stati chiamati per esistere implica il dover partecipare alla vita, alle sue distrazioni, prevede di dover giocare una partita sempre nuova. Ebbene, intrapresa questa direzione, Pamio rilancia una riflessione sul mistero della creazione e della nascita dell’uomo. Una tematica particolarmente cara ai poeti, questa, che è stata sondata recentemente anche da autori (ultra)contemporanei, tra i quali spicca Claudio Damiani con il suo Prima di nascere (Fazi, 2022).
Sentire di riconoscere ciò che si è negli altri coincide con la capacità o, meglio, con il potere di riuscire a mettersi in dubbio. Vacillare scomposti, fino a ricomporsi nell’ascolto di ciò che è vicino, ma anche altro da noi.
Alcuni dei versi più interessanti sono quelli assemblati in Apocalissi apocrife (alle pp. 91-95); si leggano quelli di Sentire (p. 93), dove la rima schisi-sorrisi tende ad evidenziare la cura di Pamio nei riguardi della terminologia medica e scientifica:
Sentire
Significò leggere nei molti me stesso,
e sempre dubitare di tutti loro con annessi,
fin quando ricomposi nell’ascolto
quel che sempre involto
nasceva con le mie schisi
cresceva con le rughe dei sorrisi
invecchiava per morire. Con me, di me.
Oltretutto, la versificazione di Massimo Pamio è intrisa di una sottile ironia, velata d’amarezza:
(siamo bendati)
veniamo bendati prima di nascere
non ricordiamo nulla del passato
di quello che ci ha preceduto
siamo l’invano pastrano gelato
dell’inverno steso sulla pianura
del seme dell’ignara madre vita
che genera un figlio mai nato
(sono nato invano)
sono nato marrano e me ne vanto
sono nato pellegrino errabondo
cieco eremita mendicante
nato nell’ora del tramonto invano.
Il rapporto tra l’essere nati e la percezione del tempo che scorre è un altro tema pregnante in tutta l’opera di Pamio. Un testo chiave di Anonimie è quello che apre l’antologia, ovvero Teomantica del cantimbanco in Cartavento(sa). Quest’ultima poesia è stata composta nell’arco di tempo che va dal 2010 al 2011. Il testo è vibrante e si leva dal «pulsare cacofonico del mondo»; così, Pamio scrive:
Al tempo dedicai ogni premura.
Collezionai clessidre, avendo cura
di rovesciarne il senso, la misura.
Dei giorni e delle notti consumai
nel diario del mio corpo l’inesatto
pulsare cacofonico del mondo
che leviga la colpa dell’esistere.
Della falsità dell’io, del difficile convivere umano, infine, non resta che godersi il castigo e levigare questa colpa dell’essere nati, poiché, come scrisse Ungaretti, persino il poeta è una creatura per cui «La morte/ si sconta/ vivendo».
Vernalda Di Tanna
Teomantica del cantimbanco
I
Per opere ed azioni in commissioni,
in gesti, fatturati, espropriazioni,
di conquistare il mondo non pretesi,
né mai contesi scranni o ascesi vette:
mi fu distante terra come il cielo.
Smarriti pellegrini non soccorsi,
né lacrime asciugai di sofferenti
nell’ammonir potenti ebbi difetto.
Difese eressi in me: le rafforzai.
Omisi di onorar competizioni,
tornei scansai tenzoni e cerimonie,
né titoli comprai, né ricattai
per ricavar piaceri o pur ricchezza.
Ingegno non profusi in invenzioni,
bellezza nei musei non frequentai
nel fior di ville e adorni colossei.
Conoscere non volli fuor di me.
Sul volto or mondo marca ingeneroso
con la vecchiezza, i tratti del perdente.
Ma la mia vita – giuro – non è reale.
II
Al tempo dedicai ogni premura.
Collezionai clessidre, avendo cura
di rovesciarne il senso, la misura.
Dei giorni e delle notti consumai
nel diario del mio corpo l’inesatto
pulsare cacofonico del mondo
che leviga la colpa dell’esistere.
III
Il tempo che misuro con lentezza
l’impiego a sperperare in osterie
la gioia che m’è data con larghezza.
E nomi e volti affogo con destrezza
in coppe liberate dal liquore
nel cui ialino fondo ubriaco scorgo
la trama della sorte già spellata.
IV Teotopie
Più che in me stesso,
nell’insieme di quelli
che mi circondano,
io sono,
nella loro assenza,
come nella mia in loro.
Tutti quelli sono, meno me stesso.
V
Perduto, nel cercarmi
celo me stesso.
Sono assenza in me,
l’ultimo lume d’io
cui nulla è dato
prima d’annullarsi.
VI
Mi soccorre Dio
– così nascosto in me,
che stento a farmi uomo
e voce di me stesso.
VII
Umanità, di sé
veste ogni cosa, come luce fa,
e quale neve ammanta
cela, imbelletta,
da Natura incalzata
da un lontano scorrere di domande
che dall’origine la investono,
esigendo una qualche verità
quando infine nell’ultimo sprofonda
in me, proprio in me, che non ho risposta.
VIII
Quanto di quel pulviscolo
d’interrogazioni celesti
potrò sopportare, rifugio
di tutto ciò che m’inganna, e del vano,
dell’umana finzione.
IX
Quanto Nulla dovrò accogliere
prima ch’io possa definirmi uomo
ma non per approssimazione
né per difetto,
o per colmo d’assenza,
– la specie ancora intenta a dipanare
i nodi di natura.
X
Dell’assenza sono il bibliotecario,
reticenza ed ombra curo del nulla.
Un chiarore balugina nel mondo:
tiene ancor viva la brace dell’essere.
Forse non vale il gioco, forse è meglio
continuare nel nostro buio ad essere
oscurati da ciò che ci nasconde.
XI
Non che mi venga in aiuto il mattino.
Al risveglio nulla mi si chiarisce
non ha recato la notte consiglio.
Chi fui ieri? Quale luce irradiavo
quale oscuro desiderio celavo,
avrei voluto nel sonno sorprendere
il nemico, oppure prestargli aiuto?
Da quali urgenze sospinto, in qual modo
impegnato a compiere il mio destino?
Quali le identità che rivestivo?
Lasciate ch’io mi riscuota dal sonno,
che riprenda il filo del mio cammino.
Ecco, ora mi raccolgo, mi concentro.
Vi dirò di tutto ciò che m’è oblio.
XII
Non so ben ridir com’io osai
esser me, né per quale motivo
insistendo in sé indistinti
e formalmente conclusi,
nelle diverse maschere
mi ritrovassi a perfezione
così come nell’errore o nella mancanza
di cui ogni uomo è misura
stante l’inutilità dell’ossessione.
XIII
Una barca in procella, la persona
che abito come un fungo, un parassita,
di cui temo per la sorte: non v’è
difesa alcuna, né certezza; sàlvati
per noi due, affinché io possa fingermi
àncora al porto della tua demenza
quando non riesco neanche a possederti,
a sbocconcellarti, per sovrappormi
ai sogni, per indurti in tentazione.
XIV
Non c’è nessuna maschera che possa
nascondermi a me stesso. Nessun vero
nessun reale che possano svelarmi.
Uomo!, mi chiamano, ma son quell’uno
che si volge, cui è stato posto un veto.
XV
Sono l’astratta coscienza dell’io
– lo scomodo testimone, l’insulto;
il caso è il mio padrone: lo servo;
appena desto la fronte mi segno
con lo stigma dell’interna bestemmia
dell’indecenza a cui sono votato,
perché reo: ma il mondo, che oscenità.
XVI
Io, giullare del mistero, demente
dell’ignoto reietto rifiutato
gettato già fin dal primo vagito
nel carcere del Tempo quale ostaggio
io – e se fossi Dio? Avvinto al nulla.
XVII
Io sono il buio, la luce ch’io sono.
Ma io non sono colui che cercò,
nel desiderare luce, l’oscuro?
Dunque io chi sono se non quel che Dio
inseguì vanamente avvinto al nulla?
XVIII
Sisifo che verso l’alto sospinge
la sua pena, quando a valle precipita
ogni volta, non s’arrende, sì bene
l’opera riprende con rinnovata
lena: oh, se lo comprendo! In quel procedere
che non conosce sosta né sollievo
mentre disfa Penelope la tela
e lente si consumano battaglie
– a Waterloo il sangue per giorni bagna
la terra: il mare ne ribolle a Lepanto –
s’annodano menzogna con il vero,
risposte con domande, si smarrisce
e ritrova vita. L’uomo è colui
che parte e cancella a volte il motivo
del viaggio, non gli preme più l’arrivo
ma solo il verso della direzione,
il modo in cui s’accumulano i giri.