La maggior parte dei luoghi ci è sconosciuta, fino a che non avviene il primo incontro. E dopo quel momento iniziale, similmente a quanto accade con le persone, creiamo con loro un legame, flebile se ci dicono poco o nulla oppure avversativo, quando fanno nascere in noi un senso di disagio o, ancora, indissolubile, nel caso in cui riescano a farci innamorare, ad attraversarci mentre noi li stiamo attraversando.
Un tardo pomeriggio di pioggia di un mese di febbraio conosco Monteriggioni, paesino della provincia di Siena, a cui Dante dedica alcuni versi del suo Inferno, che così la descrivono:
«[…] però che, come in su la cerchia tonda
Monteriggion di torri si corona,
così la proda che ‘l pozzo circonda
torregiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tona»
(Inferno, Canto XXXI, vv. 40-45)
Non ho mai visto Monteriggioni con i miei occhi: il borgo che io ricordo l’ho scrutato con quelli della persona che quel giorno mi teneva per mano, la persona con la quale ho provato l’amore nella sua distruttiva e meravigliosa totalità e con cui ho imparato per bene che quello stesso amore non può tutto, perché si ferma laddove l’Altro muove il proprio passo di volontà, giusta o ingiusta che sia, sana o malata, buona o feroce.
Parlando di fede, eravamo entrati nella piccola chiesa, contemplato una statuetta della Madonna, fatto un’offerta e acquistato un’immagine sacra, nella consapevolezza che quel qualcuno razionalmente inesistente sapeva farsi cosa cara e tangibile nell’irrazionalità. Dentro un luogo nel luogo, in sospensione tra ciò che credevo fosse e ciò che in realtà era, per la prima (e unica) volta in vita mia ho capito da dove potesse scaturire il desiderio di generare un figlio, di mischiare il sangue, di dividere le parti per metterle insieme e dare forma a un’unica diade. Il parto, inteso come estrinsecazione di qualcosa creato interiormente dal due, è diventato un insieme di parole, quelle con le quali ho dato voce a questo pensiero, lontanissimo anche allora da un’idea di concreta realizzazione, ma vivo e autentico dentro le sillabe.
Ripenso al verso di Cristina Campo, a cui spesso torno con la mente, «T’ho barattato, amore, con parole.»: ecco, uno scambio questo che molto presto ho capito avrei dovuto mettere in atto e che continua a sembrarmi l’unico do ut des meritevole di essere praticato, perché chi, come me, abita le zone limbiche, le sole in cui si può scegliere di non appartenere mai a nulla in via definitiva, sa di dovere rinunciare a molte cose della terra per potere godere di quelle del cielo, che non hanno nulla di paradisiaco o ascetico, ma solo lo spazio per dispiegarsi completamente ed essere libere, come io sempre e per sempre voglio essere.
Monteriggioni, quindi, oltre a farsi fotogramma di un momento intimo personalmente significativo, diventa testimonianza del potere della parola e della poesia, che è senza dubbio una faccenda letteraria ma è anche l’incarnazione perpetuata di ciò che la vita ci fa solo sfiorare o assaporare per poco; nel luogo-Poesia il baratto di cui sopra non ci lascia a mani vuote, anzi, quello che ci accorgiamo di avere trattenuto è proprio quello che volevamo, quell’indicibile che diventa come per incanto fiato, voce, gambe. E che va, con noi e ben oltre noi.
Alessandra Corbetta
Monteriggioni
Da dentro la chiesetta la Madonna ci osserva:
credere o non credere è una ragione
che non possiamo dare.
Alla luce accesa per uno scambio equo
il blu divampa
fa che abbia le sue mani
è un petalo di margherita che cade
o magari una preghiera antica.
La camminata a Monteriggioni resterà
l’unico parto: dire l’indicibile con convinzione
è stato mettere al mondo qualcosa
(da Estate corsara, Puntoacapo Editrice 2022)
foto di copertina di Daniele Ferroni