Alveare – Elisa Ruotolo


Elisa Ruotolo, Alveare (Crocetti Editore – IF Idee editoriali Feltrinelli, 2023)

Alveare è il titolo dell’ultimo libro di poesia di Elisa Ruotolo edito da Crocetti Editore. Autrice e poetessa, Ruotolo ha misurato la sua scrittura con racconti, romanzi, la saggistica e la curatela di libri sulla vita e l’opera di Antonia Pozzi. Una scrittura esperta, compatta, minuziosa, precisa, che con Alveare si focalizza sulla struttura e la vita di un gruppo sociale, il micromondo degli insetti. Un poemetto che parla di api, della società complessa che le governa, il ruolo e la particolarità di ciascuna di esse.

Il libro si apre fornendo un quadro generale al lettore. Lo spazio-tempo della poesia Inverno apre l’opera: «Ogni voce è persa e dagli occhi non arriva / grazia. Inospitale, il gelo ci fa dormire e ottunde» e ancora «la pioggia lava, poi la neve imbianca / e fa di noi soldati che obbediscono contro cuore / alla trincea e già raccontare non sanno/ la propria memoria». Questo quadro invernale ci riporta nella stanza di Baudelaire di La campana incrinata poesia scritta nel 1851 e contenuta ne I fiori del male, ci riporta ai suoni e i ricordi ovattati dall’attesa imposta dalla stagione invernale.

Si presagisce il buio, che compare da protagonista nei primi versi della seconda poesia dal titolo L’Apicoltore che comincia così: «Il buio è madre / tutto accade in un ventre». Con questi due versi potentissimi Ruotolo inizia a scardinare il nostro punto di vista, nel primo verso attribuendo la maternità a una parola di genere maschile, il buio, e nel secondo verso specificando che sarà il ventre il punto di vista privilegiato. Ed è qui che Ruotolo mostra il volersi misurare nella scrittura poetica con un aspetto inedito della vita delle api, che parleranno da questo ventre, parleranno di loro in prima persona, e non viste o osservate dall’esterno. Ed ecco che l’apicoltore è estraneo, incompreso, distante, parassita. «In questa meccanica non hanno bisogno di me / ed è la mia pena» e ancora «Di me hanno un’idea incerta / sono per loro una specie di infinito / che minaccia / – un estraneo», e ancora, «Amarli? Di loro ho bisogno» e chiude con «non ho miele da dare, io». Ed è sempre in questa poesia che continua ciò che aveva appena accennato in apertura, il tema del buio e della luce. Il buio come condizione benevola, punto di forza, la luce come invasione di uno spazio sacro. Se il buio è fertile, è madre, nella luce stanno le leggi degli uomini che credono di essere onnipotenti: «Dentro è caldo di folla e buio / la mia onnipotenza invece sta nel chiaro / risponde al nome che meno desidero / sa d’una eternità destinata a finire / mentre loro – i vivi dell’alveare / si rinnovano». Il lettore deve abituarsi al cono d’ombra, non alla luce, come nel quadro di Caravaggio del 1610 Il Martirio di Sant’Orsola, gli occhi del lettore vengono aperti al buio, a osservare con attenzione spazi che normalmente gli sono preclusi.

Ed è qui che il libro si distingue.

«La bibliografia sull’ape è fra le più nutrite. Sin dalle origini, questo piccolo essere strano, che vive in società con leggi complicate e che compie nell’ombra dei veri prodigi, ha attirato la curiosità dell’uomo. Aristotele, Catone. Varrone, Plinio, Columella, Palladio, tutti se ne sono occupati, per non parlare del filosofo Aristomaco che, secondo Plinio, le osservò per cinquantotto anni, e di Filisco di Taso, che visse nei luoghi più deserti al solo scopo di guardarle più da vicino, guadagnandosi così il soprannome di “Il Selvaggio”. Ma fin qui si parla più che altro della leggenda dell’ape e tutto ciò che possiamo trarne, cioè quasi nulla, si trova riassunto nel quarto canto delle Georgiche di Virgilio». Così scrive Maurice Maeterlinck nel 1901 nel suo libro La vita delle Api. Api viste e osservate dall’esterno e non dall’interno del loro buio.

Ruotolo con la terza poesia La città del miele conferma il suo punto di vista dall’interno, non di osservatrice esterna, come abbiamo già visto fare a filosofi e a letterati fin dall’antichità. Ruotolo ci porta «nella Città dell’ombra», sono le api che narrano da una città frenetica, rumorosa. «Là dentro la Città vive una strana notte / dove il riposo è bandito dalle opere / e il chiasso accompagna le ore / che sbattono nella ruota del dovere». Ingranaggi, orologi che ricordano la celebre scena del film Tempi Moderni di Charlie Chaplin del 1936. Ed è qui che il lettore comincia a scivolare nella vita di queste piccole api come nella sua propria. La vita frenetica, l’essere parte di un meccanismo, il ruolo sociale imposto a ciascuna delle api lo avvertiamo anche noi.

La sezione Voci dall’alveare segue la vita degli insetti ed è scandita dal tempo della loro nascita. Sedicesimo giorno è quando nasce la Regina, il Ventunesimo giorno: le Api Operaie, Ventiquattresimo giorno è il giorno in cui nasce il Fuco.

Ed è in questa sezione che si concentrano le tematiche che emergono prepotenti dal libro di Ruotolo, una di queste è il ruolo sociale. Questo tema fu affrontato anche da Sylvia Plath e anche lei usò le api per interrogarsi. The Bee Meeting è la prima poesia di una sequenza di cinque che Plath scrisse nell’ottobre del 1962. Il padre di Sylvia Plath era un entomologo e scrisse a sua volta un libro sui Calabroni nel 1934. Plath era un’apicoltrice amatoriale e da sempre era affascinata dalla vita delle api. In questa poesia la poetessa s’interrogava sul suo ruolo, sentendosi nuda, proprio come un’autrice molto amata da Ruotolo, Antonia Pozzi che scrisse la poesia Canto della mia nudità. Se Plath però si vede vedersi dall’esterno in The Bee Meeting, Ruotolo affronta la questione dall’interno. Vediamo come alcune tematiche del femminile quali l’educazione, la libertà, il sacrificio vengono sviscerate da Ruotolo in questa sezione. Dalla poesia La Pupa scrive: «Un educare la voce a fare / da lingua madre». Dalla poesia La Regina scrive: «Ho tutto in me: la colpa del recluso / la paura dei piccoli» e ancora «ma qualcuno mi ha vista e separata / – trebbiata come grano dalla pula», «questa casa in cui vivo da schiava». Dalla poesia La Bottinatrice scrive: «Mi è nota invece la furia del dovere» e ancora «Stringe quando esco / è come una corda che si allunga / e si tende, ma tu lo sai che c’è una misura / in quello spago / – una misura che non sazia mai / il bisogno».

Ridurre però i temi affrontati da Ruotolo solo a tematiche femminili sarebbe riduttivo, ella affronta anche questi temi. Il libro di Ruotolo più di tutto abbraccia una visione molto ampia dell’umano, una visione filosofica sul destino, la genesi, la morte, il senso di sacrificio, lo scopo delle nostre vite. Ruotolo lo fa procedendo con continuità su due piani, il macro, quello dell’universo, e il micro, la visione dei piccoli insetti, ma anche la nostra di umani: «vivere è disfare l’eterno / è scoprirne la menzogna». Una verità che può essere svelata solo vivendo. Ruotolo riesce, attraverso il linguaggio, a farci immedesimare, scrivendo della vita delle api scrive anche delle nostre vite, stravolgendo il punto di vista delle Georgiche di Virgilio.

Elisa Longo

 
 

Elisa Ruotolo, sabato 16 dicembre, parteciperà a Sottovoce assieme a Martin Rueff (Icaro grida in un cielo di creta, Samuele Editore-Pordenonelegge, 2023, collana Gialla Oro) e al finalista al Premio Strega Poesia Stefano Simoncelli

 
 
Inverno
 
Ogni voce è persa e dagli occhi non arriva
grazia. Inospitale, il gelo ci fa dormire e ottunde
la profezia del verde. Tutto cade dall’alto
la pioggia lava, poi la neve imbianca
e fa di noi soldati che obbediscono contro cuore
alla trincea e già raccontare non sanno
la propria memoria.
Mentre l’inverno apparecchia sventure alle linfe
impariamo una nuova preghiera
e il congedo dai chiodi dell’estate.
La morchia della terra mescolata all’umore
l’innesto del sonno sul moto mercuriale dei corpi
la breve paga del riposo, ci annodano in un torpore
ingordo, che distanzia ogni amore di veglia.
Il glomere pulsa di fiamma e protezione
nel suo miracolo un delirio senza tregua
– ventre nero, dubbio di vita, antro in cui si scende
da cavatori in cerca di un rimedio
alla stagione
I campi sono nudi e i fiori, nel bavaglio del freddo
non chiamano da tempo.
Ogni promessa è rimandata e persino il cielo,
sempre fermo
persino lui ci lascia e va lontano, quasi crudele
va a cercare altrove, in altri deserti
la sua dolcezza.
È inverno, e lui sa farci piccole davvero
mentre la resurrezione è remota,
irreale
quanto la primavera.
 
 
 
 
 
 
La Pupa
 
Quale volto ha la vita? Quale la morte?
E dove collocare il fondale più basso?
Ho troppe domande
in questa notte di voci in cui
non imparo a dormire eppure sogno,
e divento.
Vado avanti senza un luogo
mentre cresco e forzo la poca pelle che resta
contro il mondo.
Infanzia è stare fermi a nutrirsi – è attesa,
fame di tutto
il malinteso di un corpo che vibra
inascoltato, in una cella di limiti
e occasioni.
Uscire dalla culla sarà un andare per briciole
e cimiteri di rami che la vita – di machete
avrà già sfrondato.
Un educare la voce a fare
da lingua madre.
Sono molle contro il ferro del fuori
sono sinistra nel gioco del possibile
che mi rende inaffidabile
alla forma.
Cresco nel desiderio e nella perversione
di amare tutto – il dato e il negato.
Ma alla fine mi toccherà una vita sola
non un andito secondario per fuggirla
o un abaco puntuale
nella conta dei giorni.
Dureranno o sfrideranno in fretta?
Batto contro il diaframma che mi tiene in disparte
e grido da questa infanzia di cautele
da questa cella che sa tutto di me
e io non indovino.
Cieca e bambina accumulo presagi per lo svago
quando arriverà a toccarmi.
Eccomi
rompo il guscio, m’insinuo nel taglio di vita
umida e in paura
mi guardo dall’alto degli occhi
e non capisco
cosa sarò e se dio saprà vedermi.
Nasco, e questa enormità non pesa niente,
questa solennità modesta
non fa rumore.
Sono qui
tra tanti
e non importa a nessuno