Alle porte del regno dei cieli – Francesco Costa

Alle porte del regno dei cieli - Francesco Costa
 
 
Come una mosca alle porte del regno dei cieli
 
Su spiagge eterne e bianchissime
vorrei
recuperare anche solo
qualche minuto di sonno,
ma sto come una mosca
alle porte del regno dei cieli
frenetica
e inutile.
 
 
 
 
 
 
Poesia d’amore
 
Mio Dio parco d’amore
ma non di condanne
 
ti restituisco l’amore furioso
che rovista nei costati
semplice, meschino
 
come tu lo comandi,
un amore di ferro
un amore di legno
di chiodi e stermini.
 
 
 
 
 
 
Minimi termini
 
A mezzogiorno
quando le ombre s’accorciano
e tutto è ridotto
ai minimi termini
mi credo a volte
di vederti
 
una mancanza
assenze reiterate
un meticoloso non esserci
che sformicola
lungo le estremità
delle mie notti estive
eterne
quasi.
 
 
 
 
 
 
Dopo la corda e il serpente
 
Cos’avrei dato per rivederti
allora
quando gli dei
camminavano sulla terra
e Anu poneva
le fondamenta di Uruk
 
ma oggi e domani
dopo i quattordici soli
e i dissestamenti delle falesie
e della pelle
dopo l’inverno
e il raffreddamento
dei reattori
cosa rimane,
dopo la corda
e il serpente?
 
 
Francesco Costa, La foresta dei cedri (Ensembe, 2022)
 
 
 
 

Dal darsi lentamente oscillante, liquido perfino, La foresta dei cedri di Francesco Costa si distingue nel panorama del contemporaneo per una paradossale compitezza del verso; di contraltare al nucleo sostanziale del canto che, considerate le varie componenti del dettato dalla messa in posa, alle tematica (sempre che di poesia e thema, al giorno d’oggi, sia possibile discutere) lirica dell’opera, si compie agli occhi del lettore in una sintesi dall’ampiezza, tanto invocata quanto ricercata, sconfinata racchiusa in una rastremata estetica della versificazione.

Nella fattuale appartenenza ad illuminazioni liriche, ad idilli malinconici, ed a rimpianti dai risvolti tragici, la voce dell’autore conosce una brulicante sequela di stimoli esterni che, nel loro costante e doloroso trapungere la coscienza poetica del nostro, son trasportati in un gorgo di rammarico, per poi portarsi a compimento ed alla consumazione conseguente in ogni limite e vestigio di personalità.

Per questo, il lirismo adesivo al dramma quotidiano esposto dal nostro si cala completamente in una realtà scossa nel profondo dalla percezione dello sconfinato; e l’io esonda, assurgendo ed assumendo una funzione tendenzialmente universalistica di chiunque-legga.

Di conseguenza, la domanda che viene offerta al lettore potrebbe insistere sul confine di quanto sia empatia, e quando sia sym-patheia con il soggetto lirico; e, in effetti, il testo richiede un certo grado di comprensione che trapassi il mero sema, o il significato primo che questo comporti, per poi a questo confondersi.

Ma, al di là di questo, e più complimentando una narrazione episodica (quasi allineata ad una certa tradizione novecentesca, al punto da titolare ogni componimento) l’opera non si discosta, né si esime, dalla pulsione spasmodica che si può rinvenire nella trattazione poematica della tramatura del reale; spingendo le mani in questa, solo per recuperarne la lacunosità.

Non di meno, se non anzi proprio per questo motivo, l’ente poetante nella pagina si dimostra completamente deluso, fino a spingersi al limite del disgusto, dalle sorti della vita; pertanto potremmo speculare attorno ad un concetto di biografismo penitenziale, o inteso ad una mortificazione che da una struttura eso-poetica, invesca anche ciò che sia endo-poetico. Ma non a solo questo si riduce la matrice lirica dell’autore, né tanto meno in una narrazione onfaloscopica, o comunque proprio-centrica, ovvero fine a sé stessa.

Anzi: proprio per questa ragione è elemento cardinale del testo un personaggio la cui densità si incarna certamente in un monologo; e questo, se da un lato conferma una propriocezione sofferente ed incline alla percezione dell’estro tragico insito all’esistente; dall’altro, seppur squadrando una sensibilità che conosce la miseria del perimetro epidermico dell’umano, non intende sottrarsi di conseguenza alla concreta necessità del confronto con l’eterno, e con lo smisurato.

Per questo la versificazione di Costa sembra procedere accostando alla tensione verso l’innominabile, un lirismo confessionale che incontra il proprio contrappeso in una postura tanto fosca quanto quieta, e dalle venature modali intrise di un pudore virginale che sembra stridere con lo slancio tonico verso quell’oltre così disperatamente invocato.
Eppure, richiamando il paradosso di cui in apertura, tale quietezza e tale posatezza nella disposizione dei versi sembrano definire un metodo ed una ricerca, se non anzi un esito della sofferenza esistenzialistica, di natura strettamente filosofica e di scuola stoica.

Auspicabilmente, è anzi per questo che la politezza della poesia in Costa cristallizza un monumento, ed un documento assieme, alla vita non più redimibile; oramai dispersa tra i poli della contemplazione distaccata, dell’amara ironia, e della passione più berciante.

Così, concludendo, si manifesta una poesia che tanto si cala nella vita, esponendosi infine anche alla volgare lordura della stessa, tanto richiama a sé un determinato mitologismo esasperato: come se l’insieme delle realtà fideistiche che caratterizzano l’antropocene, se poste assieme in termini simbolici — consapevolmente scontandone quindi il dogmatismo patologico, e concedendo il fianco anche un irenismo sistematico — concedessero l’illusione di una ricerca speranzosa che il mito, così recuperato, possa auspicabilmente giustificare ciò che giustificazione, purtroppo, non ha.

Carlo Ragliani