LA POESIA MAGMATICA DI GIANCARLO PONTIGGIA
Ci avvincano le rose, e le tenebre
d’estate. E i tuoi scuri occhi,
vita.
L’esperienza poetica di Giancarlo Pontiggia, autore tra i più luminescenti della nostra letteratura, poeta, saggista, finissimo critico, traduttore, risente ab origine di un sostrato che affonda nell’infanzia, nei tempi smunti di pomeriggi assolati nella Brianza selvatica, quando antiche radio restituivano in lingue sconosciute echi di parole incomprensibili, ciò che egli definisce come “provvista poetica”. L’essere poeta, ed esserlo a tutto tondo, significa per lui richiamare gli archetipi di questo genere, comporre un verso in grado di distinguersi non in quanto naturaliter superiore per qualche forma intellettualistica o snobistica (che in lui è quanto di più distante possa esistere) bensì per il valore assegnato alla parola come guida del tempo, come materia viva e pulsante, ritmica e seducente, a cui aderire. Luzi, Caproni, il primo Montale (almeno sino a Bufera degli anni Cinquanta), ma anche Camus, Mann, Pavese sono i degni rappresentanti di quel vasto e proteiforme brodo primordiale in cui ha nuotato fin da giovanissimo, che lo ha segnato e che egli si porterà dietro per tutta la vita. Così apprendiamo dall’interessante volume Giancarlo Pontiggia – Nuovi dialoghi sulla poesia (2015-2020) licenziato in stampa per i tipi di Amos Edizioni che raccoglie diciotto conversazioni-interviste di altrettanti letterati con l’autore, introdotte da una esaustiva nota critica di Stefano Verdino. Una poesia, una scrittura quella di Pontiggia, “onesta” per dirla con Umberto Saba, umile eppur concreta, carica di simboli e di significati, profetica e mutante, fecondata da quel magma luziano che è energia pura, influenzata dalla classicità, abile a farsi altro da sé (che, altrimenti, è semplice, effimera fotografia dell’esistente), ma soprattutto incline a mostrare il volto dell’esperienza umana, la sola azione in grado di fungere da motivazione di sé stessa per esistere. Fondamentale è stata, tra le tante, l’esperienza in Niebo, la rivista di Milo De Angelis apparsa sul finire degli anni Settanta a cui egli partecipò fecondamente in qualità di redattore. La letteratura ha una forza propulsiva in grado di modificare la nostra percezione delle cose, del tempo, dei movimenti, svolgendo quasi una funzione fantastica e manipolatoria della nostra coscienza purché, ça va sans dire, si tratti di buona scrittura. Scrivere è aderire alle ragioni dell’uomo e della vita, è descrivere anche “il male che è nelle cose”, direbbe Maurizio Cucchi, ma altresì cercare pervicacemente di raggiungere il bene per tutti, e dargli spazio. Una visione che potremmo definire cristiana, senza manicheismi, dogmi o forzature, figlia di una cultura attenta all’altro, irrobustita continuamente. In lui la tensione verso la parola e il suo significato non conosce soste, si mantiene straordinariamente vitale nel progredire dell’età anche se, si legge ancora nel volume, non sono mancati anni di silenzi e di solitudini, voluti e ricercati, per una sorta di catarsi, ma altresì di distacco dall’asfissiante mondo contemporaneo. Dare forma scritta ai pensieri richiede e presuppone una capacità di sguardo, ascolto, introspezione che la frenetica società odierna travolge e rende pressoché impossibile. Lettore onnivoro, erudito come pochi, cultore di cinema, osservatore attento di luoghi, paesaggi, spazi, Pontiggia attraversa la seconda metà del Novecento arrivando ai giorni nostri confermandosi vieppiù quale intellettuale mai fermo sulle proprie posizioni, ma sagacemente incline a nuovi orientamenti, ad approfondire e sperimentare più arti fin dall’epoca giovanile e facendo dialogare fervidamente poesia e scienza. Egli vive del e nel proprio tempo, non si culla in paradisi altri separando letteratura e vita come se fossero materie inavvicinabili o inconciliabili, tutt’altro: c’è in lui una chiara, lucidissima capacità di penetrare nella realtà ed è ciò che gli fa dire con onestà intellettuale che “nel Novecento fummo atterriti dall’estremismo delle idee, oggi dal senso di vuoto che ci assedia”. L’attacco è al mondo culturale, soggetto a compromessi al ribasso, a scadimenti e derive costanti, per il quale il denaro sembra essere diventato il Moloch a cui immolarsi, il non plus ultra da raggiungere, conquistare e mantenere a ogni costo. “Gli editori non vogliono più libri veri – risponde nell’ultima intervista del libro – ma temono gli esercizi di pensiero troppo complessi, si rivolgono a un pubblico basico, che bisogna accontentare come un bimbo pieno di giocattoli inutili, astioso e viziato”. Qualche soluzione? Chissà, forse è necessario risalire al valore primigenio della scrittura, della poesia quale indagine dentro di sé e attorno a sé: un verso ‘cosmico’, pontiggiano, che spazzi via il microautobiografismo contemporaneo. Possiamo tuttavia stare certi che, nonostante la tecnologia imperante, i social che solleticano gli istinti e vomitano in continuazione produzioni usa e getta, l’irrazionalismo diffuso a piene mani da improvvisati maestri, “la grande poesia, come il grande pensiero, continuerà ad agire clandestinamente sulle coscienze di chi non ha abdicato alla complessità del sapere e all’urgenza di una verità del cuore”. Nel volume sono raccolte anche molte curiosità e confidenze dell’autore, in un viaggio a ritroso nel tempo, tra scorci d’infanzia, studi adolescenziali, esuberanze giovanili, hobby e visioni sulla società, con la cultura a vivificarne l’esistenza di “macchina pigra”, come si definisce in chiusura di intervista, ma altresì dai mille progetti, instancabilmente orientato a illuminare di senso e di eternità la parola.
Federico Migliorati