Gianni Bertini, 1950
Per questa puntata dello Speciale Estivo di Laboratori Poesia, che prende spunto dai post pubblicati sul Gruppo Facebook dedicato (qui) voglio fare riferimento a due riflessioni pubblicate in questi giorni da Domenico Pisana (che potete trovare qui e qui). Ricordo inoltre le precedenti puntate:
1. Emotività e sintesi in Poesia
2. È proprio necessario l’io in Poesia?
3. Immagini e Social
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Pisana dice: Trovo oggi superato un certo dibattito contemporaneo che mette al centro la questione: “che cos’è poesia”, oppure che tende a stabilire “questa è poesia, questa non è poesia”. Lo trovo superato in quanto che cos’è poesia ce lo ha detto la Storia della Letteratura Italiana dalle origini ad oggi, e anche quando ce lo ha detto, la poesia è rimasta sempre un “mistero dell’anima” non facendosi ingabbiare in definizioni quasi assiomatiche, atteso che la poesia non si comprende né si definisce come fosse un teorema da spiegare; per quanto concerne poi la distinzione tra poesia e non poesia poteva interessare critici come Benedetto Croce, Francesco De Sanctis, Natalino Sapegno ed altre autorevoli figure. Oggi, dove tutto è divenuto soggettivo, addirittura anche in campo scientifico per cui alcuni scienziati dicono che i vaccini fanno bene e altri no, figuriamoci nel mondo della poesia, dove ogni poeta ritiene la propria poesia perfetta e dove certi critici autoreferenziali, autoerotici, formalisti e strutturalisti non solo mostrano l’ardire di stroncare i Nobel per la letteratura ma parlano dei poeti di oggi come di “poetucoli” e di “poetini”.
A parte l’affermazione la poesia è rimasta un mistero dell’anima, che vuol dire tutto e niente, mi devo dire sostanzialmente d’accordo col Pisana. La questione odierna soffre di uno spostamento della critica dal professionale al popolare. E questo è, a tutti gli effetti, un colpo di coda della democrazia.
Dare voce a tutti e cosa sacrosanta e buona e giusta, ma senza dimenticare che ci sono competenze ed esperienze non di rado necessarie e indispensabili, pena l’abbattimento della qualità e l’aumento della confusione e del generalismo. Dottor Google non potrà mai competere con un Dottore in carne e ossa e cervello (e studi ed esperienza). Questo per dire che lo stato confusionale della critica di questi anni nasce dal fatto che:
1) non c’è più riconoscimento dell’autorevolezza
2) non c’è più un canone
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Cosa vogliono dire queste due affermazioni? La prima è quanto dice Pisana: ogni poeta ritiene la propria poesia perfetta e dove certi critici autoreferenziali, autoerotici, formalisti e strutturalisti non solo mostrano l’ardire di stroncare i Nobel per la letteratura ma parlano dei poeti di oggi come di “poetucoli” e di “poetini”. Perché per giudicare se un poeta è tale o meno dobbiamo necessariamente avere un termine di paragone, o un metro di misura. Perché prima ancora di chiederci se un testo è Poesia dobbiamo chiederci se siamo in grado di comprendere cosa è Poesia e cosa no. E dobbiamo chiederci se c’è qualcuno che lo può dire. E ancora dobbiamo chiederci se vogliamo veramente che ci sia qualcuno che lo possa dire.
Perché la mia impressione è che oggi non vogliamo qualcuno o qualcosa che definisca ciò che sostanzialmente è il secondo punto, il canone. O meglio, lo vogliamo se a noi favorevole, altrimenti lo smontiamo. E questo ci porta a un’unica riflessione conseguente e che possiamo ben verificare nell’attività di recensioni e opinioni nei vari blog e riviste: non ci interessa ciò che dice il recensore (basta non sia negativo, ma questo ormai è molto raro), ci interessa solamente essere presenti nel blog o nella rivista.
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A cosa porta tutto questo? A non volere qualcuno di autorevole, solo qualcuno di utile. E questo è terreno fertile per il concetto di tutti possono dire qualcosa. La qual cosa è assolutamente un equivoco. Perché se tutti possono scrivere qualcosa, e questo è giusto, non tutti possono valutare un testo. O meglio, tutti possono dire mi piace non mi piace ma non possono giudicarne il valore.
Valore che nasce da diversi fattori: conoscenza linguistica, conoscenza storico/letteraria, innovazione, messaggio e via dicendo. E qui arriviamo al discorso sul canone. Cos’è il canone? Molto semplicemente è un metro di misura per comprendere il testo o l’opera. Ma il canone è sostanzialmente un codice antidemocratico basato sulla letteratura. Il canone è ciò che esclude, ciò che stronca.
Uno dei problemi, a parte l’esagerazione del concetto di democraticità che oggi viviamo (anche in questi giorni: il voto come soluzione ai problemi dei bel Paese, dimenticando che il voto è una scelta fra opzioni, e se le opzioni sono viziate a monte il voto è totalmente inutile), è anche la velocità dei tempi che percorriamo. Oggi abbiamo cambiamenti non più ogni vent’anni, o ogni dieci, ma ogni anno e ogni cinque/sei mesi. In questo il canone dovrebbe paradossalmente reinventarsi ogni pochissimo lasso di tempo per rispondere ai cambiamenti socio-letterari in atto. Ma questo non è possibile. Il perché è uno di quei domandoni che forse rimarranno senza risposta.
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Pisana continua: Chi è il poeta e qual è la sua funzione? Quale poeta auspico per la nostra contemporaneità? Rispetto al primo interrogativo, rispondo parafrasando S. Agostino quando gli pongono la domanda: che cosa è il tempo? Rispose Agostino: “Se me lo chiedi non lo so, se non me lo chiedi, lo so”. Ebbene, la stessa risposta mi viene di dare pensando al poeta: se mi chiedete chi è il poeta, non lo so, se non me lo chiedete, lo so. Perché non può definirsi come un teorema di geometria chi è il poeta, in quanto è la poesia che cerca il poeta; quando un poeta è abitato dalla poesia si avverte subito dal peso specifico della parola che utilizza, delle sue proprietà, del suo significato in ordine al logos pensante, al sentimento e all’emozione ad essa correlati. Il poeta può non sapere che cosa è la poesia, ma sa che egli è abitato dalla poesia, che è la poesia che lo cerca. “…La poesia – diceva Neruda – venne a cercarmi. Non so dove/ sia uscita, da inverno o fiume…”
Questa visione del poeta abitato dalla poesia la trovo molto viziata. Per due motivi sostanziali:
1) fa credere che tutti possono essere poeti senza sforzo, perché la Poesia ti arriva e investe
2) fa credere che la Poesia sia qualcosa di altro, diverso, di quasi divino
Purtroppo non è così. La Poesia non esiste. La Poesia è solo un modo di comunicare. Tra l’altro vittima di un grandissimo equivoco. A una vecchia data di Una scontrosa grazia ricordo che Fulvio Segato fece un’osservazione molto intelligente: in fotografia mica si chiedono cos’è la fotografia, solo in Poesia abbiamo questa fissa di chiederci cosa sia. Ed è vero, molto vero. Non diciamo certo la narrativa ci abita.
La Poesia è un modo di comunicare denso e trasversale che vive di strumenti del mestiere e di un modo di approcciarsi al mondo. È un modo di vivere e di parlare. Nulla di estraneo all’uomo, nulla che ci abiti.
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Il poeta è tale non perché segue corsi di poesia o di scrittura creativa, ma quando accade in lui qualcosa che gli ha dato una emozione interna e lo spinge a scrivere: non si può scrivere poesia “su” qualcosa, ma solo se si è fatta direttamente l’esperienza “di” qualcosa. Nessuno può dire a un poeta: scrivi su questo tema!. Perché chi scrive su commissione è un tecnico che usa la poesia e lo può anche far bene, ma essere poeta è un’altra cosa; ad un poeta nessuno può insegnare come scrivere, perché il poeta non è un tecnico di laboratorio che dice: su questo scrivo, su quest’altro no; oppure scrivo di questo perché può trovare consenso, scrivo di quest’altro perché così mi capiscono, scrivo in un altro modo perché non voglio essere compreso.
Questo è molto vero ma dimentica un fatto importante. Anche in matematica abbiamo bisogno di fare tanto esercizio prima di affrontare problemi nuovi. Nella gare sportive non c’è agonismo senza allenamento. Scrivere in un corso implica semplicemente fare esercizio e impossessarsi di quelle regole tecniche e consapevolezze che poi, quando si incontra l’ispirazione data da un fatto, o un pensiero, diventa agonismo della parola.
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Il poeta intuisce il presente per scrivere la storia del futuro. Il poeta, per me, non è un mero esteta, ma un artista, cioè una persona che, scosso da una emozione intensa, una intuizione, una visione, riesce con atto di genialità, a produrre qualcosa a “creare il bello”, a portare una cosa dal non essere all’essere, e la poesia, che deriva da “poiein”, è proprio una nuova creazione, è un attingere alla radici dell’autocoscienza, è un farsi pensiero rivoluzionario e dissidente, soggettività critica e creatrice; il poeta quando è cercato e abitato dalla poesia, è sempre e fortemente “impegnato – direbbe M. McLuhan – a scrivere una minuziosa storia del futuro perché è la sola persona consapevole del presente”.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un grandissimo equivoco che punta a mitizzare la Poesia. Scrivere Poesia è semplicemente un atto comunicativo denso di possibili regole, di rimandi, di strutture costruite dall’autore. Ma a che cosa serve? A costruire il futuro?
Qualcuno ha detto che il passato non c’è più e il futuro ancora deve arrivare. Che l’esistenza è tutta presente. Ed è vero. Il Poeta allora cosa può fare oltre a scrivere le proprie emozioni private che molto probabilmente ricalcheranno quelle di altre miliardi di persone rendendolo solo uno fra tanti? Può studiare per comprendere la realtà e interpretarla. Cosa può fare il vero poeta infatti se non interpretare la realtà e dirla? Qual è la grande Poesia se non quella che ha un effetto sulla società indicando le sue contraddizioni, le sue crepe?
Questo dovrebbe fare un Poeta. Acquisire gli strumenti per interpretare e dire la realtà, e farlo. Più è grande più il suo scritto avrà conseguenze sulla cultura e sulla società.
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La grande editoria italiana si è convinta che la poesia non vende, nessuno la legge e quindi è inutile pubblicare. Giovanni Raboni già agli inizi degli anni ’80 stigmatizzava “la forte diminuzione delle uscite dello ‘Specchio’ Mondadori, ma soprattutto la scarsissima presenza, negli attuali programmi della Mondadori, di un lavoro di ricerca e valorizzazione di nuovi autori”. In verità è proprio ciò che sta accadendo, perché in un tempo di crisi di lettura, la poesia è quel che paga di più il prezzo, ma il problema credo sia un altro: oggi non si apprezza la poesia, non la si stima da parte del pubblico e degli editori proprio a causa di precomprensioni in base alle quali la poesia non servirebbe alla conoscenza della realtà. Ecco allora che la poesia contemporanea si trova di fronte ad una grande sfida antropologica: quella di ripensare se stessa rispetto alla condizione esistenziale dell’uomo di oggi. Ripensarsi in quale direzione! Questo è il problema! Io credo non sia più il tempo in cui la poesia possa limitarsi ad abbellire o ad intrattenersi solipsisticamente sulla realtà o a fare discorsi moralistici, ma deve andare oltre l’economia, la scienza, la tecnica, la politica.
La pochissima commercializzazione della Poesia è storia veramente veramente vecchia. E motivo per cui la grande Editoria pubblica quattro libri all’anno e la piccola Editoria spesso deve appoggiarsi a modelli trasversali. Ma tutto sommato se vogliamo un libro figlio di una realtà commerciale, prodotto da qualcuno che deve essere pagato, studiato e promosso da qualcuno che deve spendere il suo tempo, dobbiamo giocoforza considerare il libro come frutto di un conto economico che non può essere in pareggio né in passivo. Pena la non esistenza del libro stesso.
Il miraggio della Poesia come dono al mondo è solo il furbo tentativo di quanti vogliono che la perdita economica venga assunta da qualcun altro. L’altra opzione è quella di cercare di produrre titoli economicamente allettanti ed ecco quindi i titoli, criticatissimi, della grande Editoria.
Come uscire quindi da questo impasse? Perdonate ma la soluzione è una sola: comprare libri e leggerli.
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La poesia non può più limitarsi a poetizzare la realtà, a descrivere e narrare il mondo, ma deve ripensarsi e rifondarsi facendo tesoro della migliore eredità poetica del Novecento al fine di fare venire alla luce il “perché” questa nostra società post moderna sta andando alla deriva. Sono fermamente convinto che nell’attuale civiltà consumistica, nella società dell’uomo oeconomicus, dell’homo faber, dell’homo ludens la poesia non potrà mai essere devastata da tempeste e che resisterà al tempo. Essa però, ma è una mia prospettiva, deve riproporsi in senso costruzionista, deve, cioè, concorrere alla costruzione di una “nuova dichiarazione di poetica”, per andare oltre quella visione minimalista secondo cui basta un’emozione, un sentimento, un foglio, una penna per buttare giù parole che vengono poi chiamate poesia.
Parlare di dichiarazione di poetica è oggi pericolosissimo. Non di rado, nella mia attività di Editore, ho incontrato manifesti che appoggiavano testi mediocri e insulsi. Una dichiarazione deve nascere a posteriori, dopo anni di lavoro. Non prima.
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Il cambio di direzione su cui riflettere è quello della collocazione del poeta nell’orizzonte di un costruttore di bellezza, di civiltà e di umanesimo, temi, certo, anch’essi della poesia universale di ogni tempo, ma oggi particolarmente bisognosi di essere recuperati e contestualizzati come contenuto importante e fondamentale per la costruzione di una poetica come vita.
La questione oggi più importante non è il poeta, ma la Poesia. Intendendo per Poesia il testo. Alcuni anni fa una piccola editrice milanese aveva tentato di produrre libri anonimi, sottolineando la centralità del testo. Fallì, lo ricordo, ma l’esperimento era giusto. Oggi dobbiamo cominciare a pensare che il testo è altro da noi. Noi lo scriviamo ma non ci riflette, non ci identifica. Noi lo scriviamo ma poi deve autodefinirsi, deve escluderci. Deve essere un testo utile a prescindere dal nostro nome.
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A che serve un poeta, supposto che a qualcosa serva, nel tempo della crisi? Se guardiamo oggi il nostro tempo, è sotto gli occhi di tutti che esso presenta, al di là di tante positività, parecchie caratteristiche negative che, poeticamente, faccio convergere nella metafora del naufragio. Quello che viviamo oggi, infatti, è il tempo dell’individualismo; è il tempo del nichilismo: tutto è relativo, tutto è un fluire mutevole, non ci sono valori uguali per tutti, paletti di riferimento; c’è una disgregazione valoriale e culturale che ha messo in discussione la ricerca della verità; non c’è più una moralità oggettiva, ma ognuno ha la sua verità, la sua idea di morale in base alla quale il bene e il male sono divenuti interscambiabili. È ancora il tempo della frammentazione e della segmentazione: tutto è frammento, segmento; se tutto è frammento, segmento, non serve più la storia, il passato, la memoria; vale per l’uomo d’oggi solo l’attimo che riesce a cogliere, il segmento esistenziale che può dare la gioia del momento, che può soddisfare la voglia di effimero. […] Il poeta di oggi è un parlante che parla a chi? E per dire cosa? Rispetto a questo, bisogna chiedersi che senso può avere il poetare, a che cosa serve un poeta, supposto che a qualcosa serva..
Come detto prima il poeta oggi si trova in una realtà confusa, dove tutto sembra avere valore e dove tutto, di conseguenza, non ce l’ha. Il metro di misura, il canone, è diventato la spendibilità social e pubblica dell’autore. Il testo serve come orpello. Dall’altro lato abbiamo poi tutta una serie di autori che lamentano di non essere invitati e riconosciuti. La frammentazione che già a inizio duemila veniva dichiarata e lamentata è diventata bisogno di riconoscibilità per tutti. Lasciando intendere a tutti gli effetti che il nome dell’autore è molto più importante dei suoi versi.
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Una soluzione a questo stato di cose non c’è, a mio avviso, se non in un lavoro privato su realtà e parola. Perché al poeta non è richiesto d’essere un front-man, e se lo pretende non ha capito e non ha studiato nulla della letteratura (non solo italiana). Il poeta deve scrivere e basta. Il poeta deve fare la differenza con i suoi versi, non col suo nome o con i suoi selfie. Se poi viene invitato da qualche parte meglio. Se vince un Premio importante meglio. Ma il suo lavoro è solo quello di interpretare la realtà e poi sottrarsi dalla pagina a tutto beneficio del lettore.
Perché la Poesia non è il messaggio privato ed emozionale dell’autore ma è un qualcosa che diventa scritto dal lettore stesso. Il lettore immagina di avere scritto quelle parole e capisce un po’ di più il mondo, la vita, gli uomini, grazie a questo. Tutto il resto è solo vanità, cosa che, nella maggior parte dei casi, esclude la possibilità della Poesia.
Alessandro Canzian
Da leggere, un esempio di Poesia:
Ah, tu non resti inerte nel tuo cielo
e la via si ripopola d’allarmi
poiché la tua imminenza respira contenuta
dal silenzio di lucide pareti
e dai vetri che fissano l’inverno.
Camminare è venirti incontro, vivere
è progredire a te, tutto è fuoco e sgomento.
E quante volte prossimo a svelarti
ho tremato d’un viso repentino
dietro i battenti d’un’antica porta
nella penombra, o a capo delle scale.
Mario Luzi, Quaderno gotico, 1947
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Mutamenti da un’ora all’altra di nuvole
oscurano, rischiarano la stanza,
variano il corso dei pensieri. Il cane
sonnecchia steso tra la madia e l’angolo
o si strofina contro muri e spigoli
finché ritorna ad accucciarsi. Le ore
passano senza che altro ne dia segno
o storni almeno un po’ la mente.
La luce infiamma o lascia oscuro il tavolo
e il vassoio, sul vassoio le arance.
È un giorno senza novità o persone…
Tu che occupi tutta quanto è vasta
epoca dopo epoca la storia
in tutta la sua distesa, in tutta
l’altezza dai fondali alle montagne
dove in rocce vietate all’uomo
incerto muove i passi lo sherpa
ma diffondi oscurità
difficile a forare
e se mai solo vivendo, se mai solo scendendo questa scala,
è un giorno senza novità o persone
ora di batticuore ora più certo
d’un libro aperto sulla giusta pagina,
un giorno, un giorno tra il prima e il poi, tra il cibo e il sonno.
Mario Luzi, Dal fondo delle campagne, 1965
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Mondo, non sono circoscritto in me,
hai voluto che fossimo ciascuno
un progetto di vita
nel progetto universale.
So bene che dobbiamo mutuamente
tu ed io crescere insieme –
era scritto nella pietra
del suo estremo miglio
e ben dentro di sé. Amen.
Mario Luzi, Sottospecie umana, 1999