Domani esce L’Immaginazione n.341 di Manni Editore. Proponiamo in anteprima l’articolo di Renato Minore presente in rivista.
La Redazione
Chi ha conosciuto e frequentato Vittorio Sereni, per ragioni di amicizia o di lavoro (a me è capitato, per alcuni anni, lettore per la narrativa su sua designazione) lo ricorda soprattutto nel luogo più abituale, dietro la scrivania. A Roma, nella soffice e austera palazzina di via Sicilia; a Milano, nel delirio di razionalità progettuale di Segrate. Sereni era dirigente della Mondadori, con responsabilità e potere decisionale. Tutte le inchieste sul lavoro degli intellettuali all’interno dell’industria culturale avevano un naturale punto d’avvio in lui, in questo poeta tra i maggiori che viveva con posizione centrale nei gangli di un apparato editoriale in profonda mutazione.
Quelle responsabilità, quel potere sembravano pesargli, e non poco. C’è un nodo fitto, quasi scorsoio che lega l’uomo al destino che gli piove addosso: ti chiedevi per quale stretta fatale quel poeta mite che ti parlava di crucci e perplessità fosse lì, proprio lì. A scegliere i libri, a fiutarne la qualità, a immaginare i bisogni di un lettore non più identificabile soltanto nell’affettuosa comunità dentro cui circola la poesia. C’era in Sereni una carica di energia, di coscienza vigilissima: e rischiava di riversarsi dentro di sé, nell’amarezza del ruolo professionale spesso sentito come dolorosa ma necessaria missione che porta a produrre cultura nel gioco collettivo delle scelte, delle direzioni di marcia, dei rifiuti conseguenti. E se l’intellettuale, lo scrittore, il poeta trovavano sempre in Sereni l’interlocutore ideale che ne capiva le ragioni, che fraternamente consigliava, l’amico o il visitatore più attento ne intuivano un interno e forse inconciliabile destino culturale vissuto centralmente e conflittualmente nel cuore stesso di una grande esperienza, anche manageriale, in cui cultura è inevitabilmente organizzazione, bilancio, tiratura, profitto.
Chi voglia valutare più concretamente questo sentimento, può andare a verificarlo in un testo davvero esemplare, il racconto L’opzione, del 1964. L’ambientazione è l’annuale Fiera del libro di Francoforte. Tra stanze di riunioni e box si aggira un altro “doppio” sereniano, uno dei tanti disseminati nella sua poesia: è “l’editor-letterato” immerso nel flusso dei contatti frenetici, degli acquisti, delle previsioni su ciò che si vende di più. Coinvolto malgré soi, distante, l’uomo si interroga sul “senso” complessivo di quella babele in cui esplodono tante lingue e codici diversi. E la risposta non soltanto la più naturale, cioè la constatazione di una mercificazione che parifica i valori e gonfia la marginalità che fa più rumore. L’uomo è in partenza un escluso dall’esperienza che ha sotto gli occhi: “Insomma io sto dentro una stanza al buio, ancora a letto, col ricevitore in mano e telefono a vuoto in un vuoto immenso e abbagliante, sono prigioniero in una camera d’albergo, segregato da una giornata strepitosa di sole che non raggiungerò”. Ma proprio questa condizione gli permette di estrarre il senso che sfugge agli altri e che pure serpeggia qua e là, senza prendere una forma consistente. Il libro, la caccia sfrenata al libro, l’ipertrofia libraria sono come test per “rispondere a una domanda, questa: che cosa succederà nel mondo nei prossimi dieci anni? E cioè, che strade prenderà la politica, quali la scienza, quali l’urbanistica e i trasporti, quali le lettere e le arti, quali il costume?”
Raramente Sereni ha espresso con maggiore chiarezza ciò che più gli premeva testimoniare sulla propria condizione come specchio di una condizione più generale. E non bisognerà, nel riprendere le fila di una valutazione complessiva della sua figura intellettuale, proporre l’immagine magari aggiornata di un uomo scisso tra le responsabilità pubbliche e le ragioni private e sentimentali della poesia. Le scissioni provocano lacerazioni e ferite, sicuramente Sereni era un uomo lacerato e ferito. Ma l’esperienza, che gli è toccato vivere e che fino all’ultimo ha retto con una montaliana decenza quotidiana, s’era come connaturata al colore stesso dei suoi versi, ne forgiava i trasalimenti e le esitazioni, ne illuminava le poche rarefatte certezze. Quelle, ad esempio, che gli facevano scrivere, meditando sulla funzione del poeta in una società ribollente come l’attuale, una dichiarazione di poetica a suo modo orgogliosa e controcorrente: “Il nome di poeta appare sempre più una qualifica socialmente difficile da portare e da sostenere perfino nel suo normale ambito letterario […]. L’esperienza concreta tiene altro linguaggio, addita una serie di altre inanità che stentano il risultato d’arte sul filo delle private emozioni, quasi si spinge ad auspicare una poesia costruita in oggetto, anonima. In ogni caso ciò che non si vorrebbe mai vedere stravolto o semplicemente alterato, è la naturale capacità di comunicazione della poesia la corrispondente attitudine ad accoglierne la voce”. Quella voce che si rispecchia nella poesia smorzata, mormorata con un’estrema “linearità e castità verbale”, che sillaba le sue paure di sempre come in un sottovoce continuo e lacerato che amalgama toni, occasioni, umori, ricordi: “Niente ha di spavento la voce che chiama me proprio me dalla strada sotto casa in un’ora di notte: è un breve risveglio di vento, una pioggia fuggiasca. Nel dire il mio nome non enumera i miei torti, non mi rinfaccia il passato. Con dolcezza (Vittorio Vittorio) mi disarma, arma contro me stesso: me”.
Quando Sereni, dietro la sua scrivania di Segrate o di Roma, intratteneva amabilmente i suoi interlocutori, parlando di sé, del suo lavoro, di certi tormenti nello scrivere, tornavano alla memoria quei versi, la loro nettezza per nulla elegiaca in un poeta scambiato spesso per elegiaco, il loro timbro secco, dolcemente postumo. E si capiva la circolarità esemplare che legava quelle rare, essenziali parole all’uomo che si aveva di fronte, il quale, con la piega amara del viso, accettava il destino che attraverso gli anni s’era forgiato come un guanto.
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