Unità di risveglio – Giovanna Rosadini

Unità di risveglio, raccolta poetica di Giovanna Rosadini (Einaudi, 2010) è un testo fondamentale per chiunque si trovi nel desiderio o dentro la strada per la rinascita. Sebbene l’autrice parli in tutto e per tutto di un «risveglio» fisico, reso necessario da un coma durato un mese, non è difficile leggere le poesie come una ricerca di ritrovata stabilità anche emotiva.

Unità di risveglio è composto da tre fondamentali sezioni: Sintomi, Terra di nessuno e Itaca. È un viaggio quello illustrato dalla Rosadini: la tappa iniziale sembra essere, a primo impatto, uno sguardo premonitore al periodo successivo al risveglio dal coma; la seconda tappa è un viaggio nel vuoto, nel silenzio del corpo e della mente che deve essere il coma; la terza tappa è il ritorno faticoso alla normalità, a Casa.

Le ventisei poesie che compongono la prima sezione Sintomi sono una per una l’analisi meticolosa dell’esperienza fisica dell’autrice, che senza scrupoli fa uso sia della sineddoche sia di raggelanti metafore: «Sono tutta spigoli, angoli storti tagliati / di sbieco […]. Sono tutta strappi», «Mi alzo stropicciata come questo lenzuolo / ammassato contro la parete, nuvola crespa // seccata in mille pieghe d’ombra, mille tagli / specchiati sulla pelle, mille sottili cicatrici».

La sezione pare essere senza un «tu» in dialogo con l’autrice, che invece si concentra totalmente su sé stessa, sui sintomi di una stasi sempre più dolorosa. Il risultato è tutt’altro che monotono, rivelando uno sguardo personale ed universale al tempo stesso, che fa fede alla tragica esperienza di molti pazienti che vivono o hanno vissuto esperienze simili.

Ciò che notiamo, sfogliando velocemente il libro della Rosadini, è che questo primo insieme di poesie è costituito da testi che mai vanno oltre i quattro versi. Eppure, nel numero limitato di versi di questi componimenti si concentra tutto quello che si può dire di una simile esperienza ospedaliera.

La seconda sezione, Terra di nessuno, è introdotta da un’epigrafe che cita il poeta Gabriele Frasca: «Il buio… il «carcere cieco» … non è mai silenzio…». Questi versi iniziali spiegano quello che, in questo contesto, è fondamentale specificare: il buio del coma di cui la Rosadini ci rende partecipi non è, come scrive Frasca, un «silenzio». L’autrice svela la qualità, per quanto continui in larga parte a rimanere misteriosa, della vita interiore di un paziente in coma: nonostante l’immobilità e l’assenza di reazioni, interiormente c’è una vita che continua a procedere, anche percettivamente. In questo senso è da intendere la parola “carcere” che Frasca usa con lucida precisione.

Se nella sezione precedente l’autrice si concentrava più sui sintomi laceranti che rendevano le sue poesie tappe di un tragico diario di guerra, qui lo sguardo si sposta all’esterno. C’è il corpo del malato e c’è un io, ci sono i parenti, gli amici, il mondo al di fuori.

I versi in apertura della sezione paiono già preludere a questa prospettiva differente: «Il mio corpo è diventato / un altro. / Non sa più / chi era. / Si perde tutte / le risposte, / mi lascia / senza scampo».

Si è notato come la prima parte del libro fosse manchevole di un «tu»; questi versi estrapolati dalla seconda sezione, invece, rivelano un tu che è sì presente, però al tempo stesso nascosto, o forse solo senza volto, oppure con tanti volti diversi. La Rosadini scrive: «è la mano che mi tocca / a riportarmi in esistenza / è lo sguardo che si posa / a restituirmi consistenza. / Sono la frase che deve / essere enunciata, / la pasta non lievitata, / l’involucro vuoto / che aspetta d’essere riempito». È un altro, dunque, a compierci, a compiere un corpo privo di energia o di senso. La ricerca di salvezza, che sempre deve venire da fuori perché, interiormente, l’energia è provvisoriamente immobilizzata, continua anche nelle seguenti poesie. Questi versi sono di preghiera: «Qualcuno che porti / l’estate da fuori, l’azzurro respiro / di voci ed umori». Dopo pochi versi il tu prende dei volti. Troviamo due poesie con dedica: la prima al marito e ai genitori; la seconda al fratello Francesco, destinatario di versi vertiginosi. Proprio questo secondo testo è addolcito, per quanto possibile, dall’uso della rima. Il leitmotiv della raccolta è questa incapacità di parlare, questo «ascoltare il mondo / da lontano», come scrive lei stessa, e restano la famiglia e gli amici come forza necessaria per ritrovare se stessi. Ce lo dice una poesia che reca con sé in epigrafe le parole di Mariangela Gualtieri, la quale parla dell’importanza di guardarsi dentro, di come tutto ciò che accumuliamo si nasconda nei meandri della nostra mente e di come così, ad un certo punto, sia necessario scandagliarla. Giovanna Rosadini scrive, a proposito dei legami che l’hanno aiutata: «Ed è il sapervi che mi ha tenuto / in vita, questi legami, a cui / sono ancorata».

Questa seconda sezione è un viaggio nelle complicate emozioni di una mente che non può parlare e di un corpo inerme. Nei ringraziamenti in calce al libro, l’autrice parla di chi, in sua assenza – non fisica, ma morale –, ha saputo trascrivere quello che accadeva attorno a lei. In questi versi l’autrice ha voluto raccontare ciò che nel suo mondo stava accadendo, il mistero di una assenza/presenza.

Il viaggio di ritorno verso casa, dopo la cura, dopo la guarigione, è la conclusione di questa raccolta poetica. Già la prima poesia di Itaca parla di «un tempo da riconquistare / verso il luogo dove voglio ritornare». La rinascita che è attesa dopo una malattia ingloba tutto; per questo l’autrice ha scelto come titolo del componimento successivo il nome del Capodanno ebraico: Rosh Ha-Shanà. Già dalle poesie precedenti il lettore ha potuto constatare la doppia natura di questo risveglio di cui ci parla la Rosadini: da una parte fisico, dall’altra spirituale.

Nonostante il risveglio dal coma e la grazia di poter tornare ad una normalità, dopo poco cominciamo a trovare testi dal tono quasi dubitoso. O meglio, è la paura a guidare certe poesie di questa terza e ultima sezione: alcuni versi vertiginosi recitano: «Vorrei una tregua per prendere / respiro, una pausa per capire cosa sono / a questo punto, quale serpente mi ha morso / ed inghiottito, il sortilegio che ci ha imprigionato», altri versi recitano «Allora dimmi, come posso fare / per contrastare questo male di cui non ho / sapienza, per soffocare questa bestia / atroce che assale e sbrana l’ultima coscienza».

In questa ultima sezione dedicata al ritorno a casa è più che mai citato l’altro come presenza fondamentale. In primo piano è ancora una volta la gratitudine, e soprattutto emerge la consapevolezza di un amore che salva e tiene attaccato l’uomo alla vita: «E certo di una cosa son convinta: / che non sarei vissuta senza questa spinta, / senza sapermi esistere nel vostro / cuore». Ultimo, grande e fondamentale appello che Giovanna Rosadini fa per esaltare l’amico, il familiare come protagonista della vita del singolo essere umano, è la lunghissima lista di nomi sotto quel «Grazie» in appendice al libro. Tra i ringraziamenti figurano familiari, in primis i genitori, amici, dei quali colpisce la dedizione nei confronti della vita che continuava a ruotare attorno a Giovanna. Non meno importante del lavoro finale dell’autrice è infatti, come emerge, quello di annotazione di eventi e parole che accadevano durante il periodo di coma da parte del fratello, autore di un diario in assenza.

La Rosadini conclude, con queste parole, i ringraziamenti ed il libro stesso: «Non si è però trattato di un lieto epilogo, ma dell’inizio, per tutti noi, di un cammino difficilissimo e faticoso di nuova vita».

Dieci anni dopo esce, per l’editore Interno Poesia, Un altro tempo. L’intento di ripercorrere quegli anni di fatica e d’attesa è caratterizzato da una scrittura in prosa, ma traboccante di poesia. All’interno di Un altro tempo troviamo trenta ricordi della clinica, della malattia, del ritorno a casa. La differenza con la raccolta Unità di risveglio è nell’approccio al tema dell’autrice stessa: adesso lontana, temporalmente e fisicamente, da quell’incidente e da quelle conseguenze impossibili da dimenticare che ora nel nuovo libro racconta con più lucidità (ma non per questo con più distacco emotivo). Lo strumento della prosa permette una maggiore precisione, stante anche il fatto che, trovandosi a parecchi anni di distanza dalla pubblicazione di Unità di risveglio, si è reso possibile una sorta di bilancio da parte dell’autrice riguardo agli eventi vissuti.

I trenta ricordi in prosa sono prima introdotti e poi conclusi da due poesie; la prima riporta il lettore al passato, ricordando l’incertezza della ripresa, l’instabilità di una memoria ancora da recuperare. Da qui ha inizio ufficialmente il giro di boa che progressivamente riporterà l’autrice alla terraferma. Se da una parte non sembrano essere trascorsi dieci anni dalle poesie e dalle riflessioni di Unità di risveglio, perché ancora sopravvive una certa tensione provocata da residui impossibili da cancellare, dall’altra si vede, netta, una speranza che si è ora fatta strada della mente dell’autrice, una speranza ineffabile, che mai come in questo momento diventa salvifica.

La poesia che, invece, chiude questa raccolta memoriale di testi in prosa poetica, appare come una promessa che Giovanna Rosadini vuol fare a se stessa. Questa è la prima frase: «Non lasciare deserta la terra di ricordi»: questo primo verso racchiude l’intero scopo e senso del libro. Seguono scene di serenità e semplicità, che ora sono vestite di un nuovo significato, quello che l’autrice definisce “compiutezza”. Si tratta del compimento per eccellenza, ovvero la felicità. Sono scene di quotidianità, come la neve che scricchiola sotto le scarpe in montagna, il bagno nell’acqua del lago vicino alla barca dei genitori, e la nascita della seconda figlia. “Sei stata felice e non lo sapevi”: così si chiude la poesia, con serenità o forse con amarezza.

Per quanto riguarda i trenta frammenti memoriali che compongono l’opera Un altro tempo, osserviamo il curioso numero: trenta. Questo ricorda la struttura di una cantica dantesca, mentre la tematica trattata nel suo complesso sembra alludere al senso dell’opera del sommo poeta. Inoltre, così come a conclusione delle tre cantiche dantesche (i mondi ultraterreni di Inferno, Purgatorio e Paradiso), Dante nomina il cielo stellato, qui Giovanna Rosadini termina con la visione di «una stupefacente nuvola rosa pennellata nella vastità del cielo».

Caterina Golia

 
 
 
 
Terreno di molte battaglie, percorsa
da eserciti invisibili, ogni giorno rinasco
 
alla potenza devastatrice di una guerra
di cui non riesco a ricordare le cause.
 
(da Sintomi)
 
 
 
 
L’Attesa

…e si rassegna il giorno
in ombra, in luce la notte…
G. GIUDICI

Nel silenzio fuggitivo delle ore
il giorno cresce e si dilata
la luce incombe alle mie spalle
tende inutili agguati, ruota
e si spegne nella sera che cala,
ineludibile e sicura.
Questa stanza è l’utero
che mi partorirà,
questa clinica la madre
che mi sta formando,
per la seconda vita che
mi sta aspettando.
 
(da Terra di nessuno)
 
 
 
 
 
 
Rosh Ha-Shanà
 
Lo sgrondo del temporale segna i vetri
infrange il buio rimescolando dal vento –
improvviso quanto la fine che segna
l’irrompere di questo nuovo inizio.