Una domanda al poeta: Maurizio Cucchi

foto di Dino Ignani

 
 
 
 
Mentre vado mi ripeto senza senso,
come una giaculatoria libera o una
canzone anonima, parole ardue e basse,
fervide di materia povera che fu
un giorno viva nel dire quotidiano.
Ecco: sgagnare, sbroffare, scorlire,
sfrisare, scarpare, spantegare
e perfino strasare.
 
 

Maurizio Cucchi, da Sindrome del distacco e tregua (Mondadori, 2019).

 
 
 
 

Sulla scena c’è un flâneur appassionato e curioso, ma anche distratto, oblomoviano, dolcemente indolente. Da che cosa nasce il suo essere desideroso, insieme, di fuga e di riposo, di attenzione e di abbandono?

Tutto, qui, sembra pastosamente sussurrato e, quasi, cantato piano, da una voce frugale e lontana, antica o atemporale (“Forse il sussurro nacque prima delle labbra…”, osserva Osip Mandel’štam). Il viaggiatore di città è, allora, sospeso tra la “giaculatoria libera” e una “canzone anonima” (facendo così convergere – e annullando – l’alto e il basso, l’eternità e l’istante, la minutezza infinitesimale e il senso di un’impercorribile enormità…); e la materia ruvida, “orizzontale”, di quegli straordinari, inusuali verbi finali non impoverisce né fa certo “regredire” la lingua, ma anzi la rende, fruttuosamente, porosa e fervida, mobile e umorosa. Quei verbi finali (remoti, dialettali, lucidamente stranianti), citati peraltro nel tempo largo e sfuggente dell’infinito, non fanno comprendere, forse, con la loro fulminante, abissale estraneità, la stessa natura di profonda, reattiva, intraducibile alterità che è una caratteristica propria della lingua poetica?

Mario Fresa

 
 
 
 

Sono verbi che mi rimontano alla coscienza da un passato remoto che credevo sepolto e invece mi si riaffaccia insistente, sempre di più, come parola del territorio che si esprime anche attraverso la mia piccola voce. Il perché le ho introdotte, nella loro musica pesante e grezza, è già detto nel testo. Sono parole di poesia, nel senso di un passato in cui la parola era creata dal basso, quando la lingua si alimentava dall’interno della realtà comune, quotidiana. Oggi coloro che erano creatori della lingua sono ridotti a poveri fruitori di una sottolingua, scadentissima e prodotta dai mass media. Già negli anni Cinquanta, il grande Andrea Zanzotto aveva capito, e scriveva: “Pace per voi per me / buona gente senza più dialetto”.

Ma la poesia si deve nutrire di parole dense di esistere, di viva materialità dell’esistere e dunque anche quei ruvidi verbi ne sono in qualche modo indicazione e strumento attivo da recuperare.

Maurizio Cucchi