Tomaso Pieragnolo

Tomaso Pieragnolo
 
 
Ma dimmi che cosa abbandona
cedendo l’ultima frontiera
l’itinerante nell’orma dei suoi piedi,
ogni momento sconvolto nella sua precedente
metà e la timorosa sopravvivenza
di ogni giorno come una memoria appena
afferrata nell’aria; un corpo conteso
e masticato dal grugno ritorto
del mare, sputato con resti
di zattera dalla plumbea gola dell’acqua,
sollevato cento volte con schiaffo
fragoroso nel saldo legame del sale,
riparato infine in mutevoli geografie
con verbo scardinato e scomposte ossa.
E nel culmine di fiumi respinti,
di scosse selve demolite, di un’orbita
che consueta frana riluttando uomo
e roccia, si decima il costante esodo,
l’orma plantare rimossa dall’urlo
del vento, il delirio culminante
sulla pietra che giunge ogni notte
macchiata dal siero di nuove estinzioni.
Ma sempre torna la luce come un lido e l’ombra
come una palpebra verde continua
a fermentare colori e reca labile
la pioggia i suoi celesti crini;
nell’interezza cresce il tempo e sogna
il recente popolo che la vita
non si smarrisce.