L’aprire degli occhi:
la visibilità che abbatte
accoglie il testimone.
Il ritorno alla somiglianza
accosta il campo visivo,
ci avvicina,
immagine dopo immagine.
La felicità della tua stretta,
ci esercitiamo a stare di fronte.
Da quando tu sei qui, io so:
si è soli, l’uguale separatamente
appartiene al genere: nell’anticipare la morte
siamo d’accordo,
generoso, il dialogo della natura.
Io ti mostro ciò
che vedo: me,
tu mi puoi spegnere, gli occhi
degli altri però rimangono.
Non li ripetere.
Io ho un diritto
d’amarti,
corpo a corpo, contro il mondo.
Tu sei giunto molto più tardi:
il susseguirsi è l’impazienza
del tempo misurabile.
La luce insieme: noi
e il sole,
mantieni quest’abisso:
la splendida ebbrezza dell’esperienza
trascorre, anche la gioia,
le cose morte tutt’intorno non hanno fine.
La tua vita riporta indietro altra vita?
da Dell’infanzia. Due lettere ai miei figli, A. Kolleritsch (Il Melangolo, 1993, traduzione di Riccarda Novello)
L’evento della paternità come testimonianza di una creazione. Questi versi di Alfred Kolleritsch potrebbero essere le parole del Dio di Genesi a suggello della sua opera; posti uno di fronte all’altro in un esercitare l’amore, il padre riconosce nel figlio la novità di uno sguardo. Ma non è chiaro in questa poesia chi guarda chi: il padre il figlio, o viceversa? In verità «l’aprire degli occhi», vale a dire la nascita di un mondo ri-creato nello sguardo, appartiene ad entrambi, accomunati dall’esperienza dell’incontro con l’Altro. La creatura appena nata e quella che ha già visto molte stagioni.
Kolleritsch, poeta austriaco scomparso nel 2020, inserisce questa poesia in una piccola dissertazione sull’infanzia (Über das Kindsein) che raccoglie due lettere indirizzate ai rispettivi figli. In verità il motivo dell’infanzia funge da pretesto per declinare la relazione tra un padre e un figlio, nodo strettamente personale e perciò assolutamente universale. Senza alcun intento teoretico o pedagogico, il poeta si limita ad indicare al figlio un modo di guardare («Io ti mostro ciò / che vedo»), di stare al mondo, di sapere («Da quando tu sei qui, io so»).
C’è un “prima” e un “dopo” rispetto a questo Evento, e quindi un proiettarsi in avanti che forse è un tornare indietro. «La tua vita riporta indietro altra vita?», ci chiede il verso finale, forte di un diritto all’amare che lo fa stare sulla soglia, tremante, sulla pianura aperta di una possibilità che non ha paura di contemplare persino il fallimento. «Tu mi puoi spegnere», scrive infatti Kolleritsch all’interlocutore di pochi giorni, mettendo a nudo la propria fragilità di uomo. Ma come può un figlio spegnere il padre? Quando lo guarda come lo guarderebbero tutti gli altri, ripetendo cioè uno sguardo che non è quello filiale plasmato da questo muto e mutuo riconoscersi. Che sarebbe come dire e pregare allo stesso tempo: al tuo sguardo, figlio, affido la mia capacità di guardare il mondo.
Pietro Russo