Esce il 18 giugno in libreria Telepatia di Gian Mario Villalta (Lietocolle-Pordenonelegge 2016, collana Gialla Oro a cura di Augusto Pivanti). Un libro che l’autore stesso, in nota, confessa avrebbe voluto intitolarsi Opuscula, perché ognuno dei 19 poemetti che lo compongono ha avuto una sua autonomia creativa. Però sarebbe stato un titolo, per molti altri aspetti, fuorviante, dato che la parola porta in sé altre indicazioni non consone. […] Aspiravo all’Opera tematica, e ne veniva un Canzoniere. Lavoravo al Canzoniere, e le parole si addensavano, come la limatura di ferro alla calamita, intorno all’attrazione di un tema. Sono passati così otto anni. Quando si può dire compiuta un’opera di poesia? Sarebbe un discorso lungo, difficile e insidioso. La risposta più semplice forse è questa: quando si incomincia a scrivere altro, anche se non si sa ancora che cosa si sta scrivendo o si vuole scrivere.
Telepatia si compone di diciannove poemetti di quattro testi l’uno (le eccezioni confermano la regola) che in qualche modo non vogliono dire nulla di nuovo, che non si allontanano da una quotidianità assolutamente condivisibile, dove le tematiche identificabili sono l’io di tutti i giorni, la famiglia, l’amore, la fine della civiltà contadina, il dolore, gli altri. Perchè in effetti la poesia quand’è vera non necessità di costruzioni o sovrastrutture in quanto si trova già nelle pieghe dei momenti che si susseguono e formano il tempo. Una telefonata, un albergo, un viaggio, lo stare all’ora di pranzo tuttinsiemeacasa. Non scopre nulla ma evidenzia. Ed in questo si inscrive un dettato fluido e scorrevole che ha nelle pause di riflessione la verticalità più intensa di Villalta (Perdere il dolore / a volte è perdere tutto […] Sa la speranza solo chi dispera […] Lo so che nascere fa male. Lo so che respirare / appena nati è tremendo. E appare naturale. / Come l’amore quando arriva e chiedi / un giorno ancora un giorno un giorno ancora).
L’autore sa bene che la poesia non è una conseguenza della vita ma un modo di esserci, non una necessità ma una consapevolezza. Ed è in tale consapevolezza che si ritrovano le due caratteristiche dominanti di Telepatia. La prima è l’attenzione al dolore, alla sua semplice e inevitabile esistenza che comporta un altrettanto inevitabile dovercisi rapportare, non giustificandolo ma convivendoci. A tratti convergendoci. Sia esso una mancanza tanto quanto una presenza (in Villalta sono spesso sinonimi sfumati). Una convivenza che porta a chiedersi chi si è, chi siamo, ma anche che cosa è l’amore, la solitudine (Va bene questa solitudine. / È la mia. Ho imparato, / e mi fa compagnia. […] Ricordo con poca tenerezza / quando mi ritenevo necessario. / E poi non più).
La seconda caratteristica di Telepatia è l’attenzione agli altri, alla loro esistenza che determina dell’io in un dato tempo e dato luogo. In questo si giustifica il titolo e la sua scelta ed è sempre l’autore ad avvertirci in nota: la poesia lo sapeva già: Celeste è questa / corrispondenza d’amorosi sensi / celeste dote è negli umani…, lo dice già Foscolo nei Sepolcri, facendo intendere a chi lo vuole che questa possibilità si forma nella vita, e perciò, purtroppo, che la telepatia, qualora unisca nella vita, è la stessa che tiene uniti nel lutto e nell’esperienza della morte degli altri. Ricordiamo un’altra cosa: con gli altri si forma il nostro sentire, ed è con altri che sentiamo in quel certo modo che poi diventerà il nostro modo di essere in un luogo, in una situazione, ecc. Altri che possono essere sconosciuti quanto amici, presenze vive o ricordate come ad esempio Amedeo Giacomini, Andrea Zanzotto, Fernando Bandini, la figlia stessa dell’autore. Altri che misurano giocoforza la propria individualità riproponendo le domande di cui sopra.
Discorso a parte andrebbe fatto per il concetto di viaggio che nel libro acquisisce un significato metaforico di una particolare quanto densa ampiezza. Un viaggio che si identifica con il vivendo ma anche con la riflessione, con lo scarto del pensiero e dell’osservazione (Ragiono dove un giorno uggioso può ancora portare, / un martedì qualunque / verso il monte guidando per andare un po’ via, / per stare un po’ via senza essere sempre io, […] e il buio ha ricordato, ha lasciato fare / alla memoria, per strada, tornante dopo / tornante, tornato), con lo spostamento fisico che si apre allo spazio quanto al tempo (Ama l’amaro, / ama la strada che ha portato fino a qui, / profumata come un sentiero, in salita / all’inizio, e che poi precipita giù nel futuro) riprendendo non di rado il concetto di paesaggio già ben esplorato nelle precedenti pubblicazioni ma che qui, ancor più di prima, diventa paesaggio umano.
Telepatia è un libro del dolore e del rapporto con gli altri che conferma la voce già ben nitida di Villalta nel panorama letterario contemporaneo. Un libro dell’esperienza che diventa dialogo nel raccontare ciò che c’è. Dove il dialogo è la vera e sostanziale componente poetica con uno stile che cerca l’incontro, la condivisione, la consonanza con se stessi e gli altri. Dove al lettore non è richiesto di stupirsi o emozionarsi ma di accorgersi della vita. La qual cosa, riuscitissima in Telepatia, è uno degli obiettivi più alti e caratterizzanti di ciò che chiamiamo Poesia.
Alessandro Canzian
Il padre chiama tutta notte.
La madre scaglia l’apparecchio
(non ce la fa più
a sentirlo) sul letto.
Lo riaccosta all’orecchio (ché è ancora là),
per sentirsi ripetere
che lui non è mai venuto meno
– lo riconosca, quello
almeno – alle sue responsabilità.
L’albergo dove dorme non ha gli scuri:
ogni volta che squilla di nuovo il telefono
riapre gli occhi e nell’albume di luce si vede i piedi, le gambe magre.
Potrebbe spegnere, invece aspetta, risponde, si lascia invadere.
Per punizione.
La bimba piange, con il padre.
Il padre aspetta che la bambina si riaddormenti
e chiama ancora (è mattina
ormai) la prega: “Puttana… crepa… non andare”.
La bimba ride, con la madre, nel sogno.
Ride fino a farsi venire la febbre.
La madre, disperata, scrive mio
all’uomo che nel giorno dopo,
nella vita dopo, la attende.
Lui risponde subito sì.
La bimba chiede (è andata via
la febbre) se è sabato, al padre che oggi non va al lavoro.
Che cosa sarebbero
queste quattro persone sole
(la bimba sola, come si è soli
a tre anni, senza neppure se stessi)
che cosa farebbero senza l’amore?
Perdere il dolore
a volte è perdere tutto. Per questo non rinuncia
all’umiliazione di sentirsi dire che non lo vuole.
Adesso sa ancora chi è. Dopo c’è solamente,
dove dovrebbe
ricominciare, il niente.
Sol che tra mi e ti, come par tante sere che le par ieri
e invenzhe l’è ‘l temps jadis, romai, le è voltra
el corridor che te à passà da sol, sol che dho ani fa
(a Coneiàn, te na bruta stansa piena de bruti fiori e de minuti
pi bruti ancora, te era ti la vera brutura,
né na s.centìsa de ti l’è restà, te che ‘l viso sgramolà
da la sgrinfa che la te à strassinà
par de là, distudhà par sempre el sbisigàr
de la luse che te sgatignéa te i oci
e te la front, pronta a farse intesa e spess, par mi, sorpresa).
Sol che tra mi e ti, in te un parlar che l’à la dh e la th,
come i nostri veci (drento ‘sta nova
comunion-distanzha, diventadhi i stessi veci),
co’ quela zh che la ne à portà
a parlar a strazhabaloòn, a strazhamarcà, co’l dialeto
e co’ l’italian, par ore e ore par très de le parole
de tute le lingue de la poesia.
Come te’l temps jadis: confessarse un fia’,
tra mi e ti, e sforzharse de capir
sto crichignot de fati, de vose e de zhent,
sto ingropament che ‘l ne sofèga
e che’l ne trà fora pa’l tenp.
Ti da la parte del camin, co’ drio la to carega
la carga dei libri, anca par tera,
e mi vardhando ogni tant la finestrela
farse pi fonda – pronti – de novo ai nostri posti
drento la mare de un tenp robà al passà,
robà al present, un tenp fora dal tenp.
Solo tra me e te, come per tante sere che sembrano ieri
e invece sono il tempo andato, oramai, al di là
del corridoio che hai passato da solo, soltanto due anni fa
(a Conegliano, in una brutta stanza piena di brutti fiori e di minuti
più brutti ancora, eri tu la vera bruttura,
neppure un barbaglio di te era rimasto, in quel tuo viso digrignato
dalla grinfia che ti ha trascinato oltre
oltraggiato per sempre lo sfavillio
della luce che ti sgattaiolava negli occhi
e sulla fronte, pronta a farsi intesa (e, spesso, mia sorpresa).
Solo tra me e te, in una lingua con la dh e la con la th,
come i nostri vecchi (ora, in questa diversa
comunione-distanza, diventati gli stessi vecchi)
con quella zh che ci ha portati
a parlare a più non posso, gratis – quasi – in quantità) con il dialetto
e con l‟italiano, per ore e ore attraverso le parole
di tutte le lingue della poesia.
Come in quel tempo andato: confessarci un po’,
tra me e te, e sforzarci di capire
questo continuo informe rammendo di fatti, di voci e di genti,
questo intrico di nodi che ci soffoca
e ci trascina attraverso il tempo.
Tu dalla parte del caminetto, e dietro la tua sedia
la caterva dei libri, anche impilati a terra,
e io guardando ogni tanto la finestrella
farsi più fonda – pronti – nuovamente ai nostri posti
dentro la matrice di un tempo rubato al passato,
rubato al presente, un tempo fuori dal tempo.
L’ho mai detto, io, ai miei,
agli amici, agli alberi, al cielo,
anche quando davvero potevo,
a qualcuno ho mai detto: “Sono felice”?
Mia figlia lo dice, senza pudore,
senza paura che qualcuno le invidi
la felicità, senza pietà per suo padre
che la stringe in silenzio e se dice “Anch’io”
poi deve correggere “in questo momento”.