Sulla riva dei corpi e delle anime – Gabriele Galloni


Eccoci finalmente all’ultimissima/ riva del mondo”:
L’A-side e il B-side di Gabriele Galloni

 

Nell’arco degli anni ho proceduto più volte per più ragioni nella lettura scoperta e riscoperta delle opere di Gabriele Galloni; per più ragioni – ancora – ne conosco strati e substrati, genesi e modificazioni.

Insomma, nuove le sue parole non mi sono. Anzi.

Eppure ora, nell’affrontare dopo tempo una rassegna integrale della voce poetica del giovane autore, riscopro fili rossi e tracce che svelano suoni mondi storie ulteriori.

Tracce, soprattutto. Sì. Ché il suo mi appare quasi come l’andare di un concept album: c’è una musica che accompagna i versi del poeta; un riverbero che assume toni differenti ma mantiene una storia. La sua storia, o di chiunque altro simile – insieme a lui. Che ciò si riscontri anche in citazioni esplicite di brani musicali, via via affioranti, non ha notabile importanza. Noto invece un “lato A” e “lato B” di questo long playing che suona e narra di esistenza e di morte, dei regni assegnati all’una e all’altra dimensione – con le dovute e rispettive norme. Lingue. Comparse e scomparse. Ma sempre in dialogo tra loro.

Il dualismo vita/morte come uno dei temi portanti che già in molti hanno individuato, anche lo stesso Alessandro Moscè autore della prefazione a Sulla riva dei corpi e delle anime (2023) – opera omnia (o quasi) dell’attività poetica di Galloni appena uscita in pubblicazione con Crocetti – più che contrapposizione dualistica, appunto, a me si presenta in realtà sorta di uroboro. Riprendo qui felicemente, e con non poco coinvolgimento anche concettuale e sensibile, l’osservazione dello scrittore e amico Mattia Tarantino rispetto ai giorni e ai mesi di partita e dipartita del giovane poeta: 09/06 – 06/09. Da lui appunto definiti simili al simbolo appena indicato.

Al di là delle suggestioni o pseudo-tali, rimane appunto in essere il delinearsi di due universi speculari e specchianti l’uno nell’altro – comunicanti come i vasi con dell’acqua che scorre e trasporta. Una vaga eco eraclitea dona a tale liquido (a volte quasi amniotico e creatore) la proprietà per la quale se bagnati in esso, non si rimarrebbe uguali a sé stessi mai; proprio questo promette quasi profetico Galloni dicendo che «per l’ennesima / volta saremo pellegrini noi / di corpo in corpo. Vedrai: non sarò / lo stesso. E non sarai / lo stesso tu ogni volta nuovo» (da Slittamenti, Augh! Edizioni, 2017). O forse quel “tu” cui si rivolge, è in realtà l’“io” primo. Ché anche questo “scorre” tra i versi del poeta: l’esistere di un singolo che può essere per sé, o un esistere universale. Una proprietà transitiva – a scorrimento – di ciò che nel mondo (ac)cade. Esente non è, ovviamente, il dolore. Il male, «il tuo male [che] pensasti fosse il / male di noi tutti.» (ibid.).

Tornando alle due dimensioni, ai due sides alle due rive (ché uno dei modi di tradurlo, in inglese, è proprio side) di tale mare in cui egualmente si bagnano vivi e morti.

Il “lato A” narra di chi su questa terra in questo mondo ancora esiste.

E l’autore subito rende nota la sua meraviglia rispetto a «quanto sia strano esistere nel mondo, / dirsi nel mondo» (da L’estate del mondo, Marco Saya editore, 2019. Citando qui con raffinatezza i Neutral Milk Hotel); meraviglia che persiste e permea nell’osservazione di una realtà che sembra a volte divenire magica. Assumere tratti extraterrestri. E dunque i “luoghi dei vivi” finiscono per svuotarsi, per arrivare al proprio osso di contorni e di cenni a una forma vaga. Le figure si fanno sagome sottili, le stanze hanno pareti bianche, non esistono riferimenti se non quelli di una geografia minimale che segna, della Roma di Galloni, le case popolari, la borgata del Trullo e la periferia intorno.

Tale meraviglia però non porta con sé incanto – anzi. È la disillusione a farsi strada in questa «eternità di controluce» (Slittamenti): immagina Galloni sé stesso – e simile a sé, trasponendo, ogni altro essere umano – un eterno pellegrino. In quei non-luoghi terrestri che perdono ogni riferimento, l’uomo non è altro che corpo in viaggio lungo una strada. E l’esistenza finisce per essere (come già presente in varie simbologie e metafore) il viaggio stesso. Perciò morire non diviene altro che cambiare strada, cambiare passo e non tenerlo più «al suo tempo» (ibid.) – quello della vita nella nostra finita dimensione. Di questa Creatura breve (edizioni Ensemble, 2018) che siamo.

Ed ecco quindi che il mondo dei morti costruisce il proprio paradigma, il proprio cammino inverso, la propria musica nel «contrappunto/ dei passi sulla terra» (In che luce cadranno, RP libri, 2018).

Arriviamo così all’altro versante del concept album esistenziale galloniano – al suo “lato B”: In che luce cadranno (RP libri, 2018) è tutto un descrivere questo regno eretto negli interstizi di quello dei vivi. I morti hanno dei loro rituali sacri, per noi inconcepibili: si arrampicano sugli alberi durante la notte, accendono continui dialoghi con la Luna – loro sorta di nume tutelare, e in quanto tale anche con i suoi errori, i suoi sgarbi – lo zenzero nelle ciotole per placare l’alta marea; tentano di comunicare con noi di consolarci ma non riescono, perché «il loro tentativo è incomprensibile:/ sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile/ della conversazione» (ibid.) a renderlo siffatto, il loro linguaggio che si inserisce nelle lacune di quello dei viventi. E ancora, dunque, il contrappunto di prima.

I morti, poi, si dimenticano. Si scordano. Non hanno bisogno di mantenere un’attenzione a quel che c’è di materiale. Alle scadenze, alle azioni di ordinaria amministrazione. Possono permettersi disattenzioni – ché lì loro crescono e si ergono. È il terreno fertile del loro mondo quello della mancanza.

Eppure – come noi – sanno avere la febbre, sanno espletare i propri bisogni fisiologici. Sanno provare amore sanno amare, sanno amarci. Ma solo con una mano, «e l’altra all’Invisibile» (ibid.).

C’è però qualcosa, un elemento, che mette in comunicazione queste due rive opposte e intersecate; il poeta ce lo presenta appieno ne L’estate del mondo (Marco Saya editore, 2019): il mare. Galloni lo rende una sorta di strumento comunicante (l’acqua di poco più su), purificatorio, che lava via ogni forma di peccato. C’è un’eco cristiana – più o meno canonica – nel corpus di tutta la sua opera, che fa dell’immensa distesa salata il suo crisma più potente.

Ed è tale liquido sacro a realizzare «una per una tutte le ferite» (ibid.), a curare, a unire. È il mare ancora a condurre lungo il cammino che si addice all’uno all’altro, differentemente eppure sempre allo stesso modo. È lui che ci porta attraverso i «giorni del Miracolo» (ibid. Citando qui The boy in the bubble di Paul Simon) e, «finalmente [,] all’ultimissima/ riva del mondo».

Arianna Vartolo

 
 
 
 
Da Slittamenti (Augh! Edizioni, 2017)
 
È giù negli interstizi di
Tempo tra i minimi
e i massimi che accade
l’irreparabile.
 
 
 
 
 
 
Da In che luce cadranno (RP libri, 2018)
 
Ci basterebbe credere a una riva;
a una luce che vada scomparendo
dietro gli scogli; o che un morto riviva,
che si perda tornando.
 
 
 
 
 
 
Da Creatura breve (Edizioni Ensemble, 2018)
 
Fabula
 
Volle provare la dissoluzione
della carne. Provarla con coscienza.
Rendersi terra fertile, ma senza
morire; vivo senza soluzione.
 
 
 
 
 
 
Da L’estate del mondo (Marco Saya editore, 2019)
 
Scappi via e ridi; lasci che la schiuma
ti evapori nel tuffo – e piena l’onda
già ti fa ruzzolare sul fondale.
 
Questi anni nostri non avranno male;
saranno sempre gli anni del Miracolo
per ogni luce che mi indicherai
 
spegnersi a basso volo sopra i campi
di Torvaianica.
 
 
 
 
 
 
Da La luna sulle case popolari (ChiPiùNeArt Edizioni, 2021)

Epitaffio per madama luna
 
Amante degli insonni,
degli ultimi romantici;
ispiratrice dei più dolci cantici,
riposa in pace
nell’ultimo dei sonni.
L’anima tace.