Stinge una rosa antica e velenosa – Fernando Della Posta

Stringe una rosa antica e velenosa - Fernando Della Posta
 
 
Quando la luna è alta e illumina il lento
sonoro brusio delle stelle, tu
dannato allo specchio cerchi uno stile,
la cifra, ma il simile cui non somigli
deride, diffida, ti cuce addosso
l’insignificanza, la tragica commedia.
 
 
 
 
 
 
Agonia dei ghiacciai

Assistendo all’agonia del Planpincieux*

Il peccato sta tutto in quel bacio
di luce, che si declassa nel grigio
delle tristi scaglie delle nuvole.

L’anello che lega Terra e Cielo
seccherà la mano dell’uomo chiamato al dominio.
Visiteremo la madre morendo.
 
* Ghiacciaio sul versante italiano del massiccio del Monte Bianco.

 
 
 
 
 
 
è venuto un nero d’inverno
che trasuda gelo alle pareti
come la manna di una pietra rivolta
al muro della cripta, benedetta da chissà
quale santa santità di crani e ossa
 
ma vi nascerà erba di muschio verde e nuova
che si gonfierà all’apparir del secco
refolo dell’aria estiva
 
in noi amata e benvoluta stinge
una rosa antica e velenosa
 
 
(Fernando Della Posta, Ricostruzione delle favole, Italic PeQuod, 2022)
 
 
 
 

Uno degli aspetti più interessanti di questi testi di Fernando Della Posta è non solo, come ha notato Umberto Piersanti in prefazione alla raccolta da cui provengono, l’efficacia dei ritratti e delle immagini naturali, rese con particolare vividezza espressiva ma, e ne è in qualche modo conseguenza programmatica, è il ridimensionamento della dimensione umana e delle sue aspirazioni, il perimetrare il suo limite, quasi risibile, sia biologico che esistenziale.

Questo risultato, come avviene in ciascuno dei testi qui proposti, viene realizzato per opposizione tra l’interiorità dell’uomo e l’esteriorità di una natura maestosa, enorme e sacra, la cui imponenza costringe la coscienza dell’uomo a considerare ogni frammento del suo esserci e del suo essere in relazione in un’ottica meno antropocentrica, quasi ridicola – e in questo non si può non scorgere la denuncia di un’umanità che tende a prendere troppo sul serio la propria “tragica commedia”.

Nel primo testo, un notturno pacifico e assoluto tratteggia la scena (“quando la luna è alta e illumina il lento / sonoro brusio delle stelle”) di un piccolo uomo che si introflette sulla ricerca di uno “stile … dannato alla specchio”, perso dunque dietro la propria immagine e quella del “simile cui non somigli”, che “deride, diffida, ti cuce addosso / l’insignificanza”. Si avverte l’afflizione e lo stato di insoddisfazione dell’essere umano concentrato su tali questioni egoriferite che, in ultima istanza, sembra ignorare il cielo notturno, preso dalla “tragica commedia” della propria immagine riflessa, di cui sospetta lo scherno e l’insufficienza.

In “Agonia dei ghiacciai” nuovamente il testo introduce a una scena di maestà naturale, dove “un bacio / di luce … si declassa nel grigio / delle tristi scaglie delle nuvole”; e nuovamente questa grandezza (“anello che lega Terra e Cielo”) non fa che evidenziare il limite dell’uomo, “chiamato al dominio”, cui inevitabilmente “seccherà la mano”, la stessa mano con cui avrebbe dovuto esercitare il proprio potere, che invece diventa solo un visitare “la madre morendo”; in questa chiusa è possibile leggere un’ulteriore spunto di riflessione e denuncia, nel mostrare l’occasione di comunione all’altro (la “madre”, che può essere sia un termine riferito alla madre biologica, sia alla dimensione altra del mondo e della natura) solo in punto di morte, quando le istanze dell’io saranno fatalmente indebolite e in punto di svanire.

L’agonia dei ghiacciai, pertanto, è innanzi tutto agonia dell’uomo, insofferente, portato istintivamente ad estendere il proprio sentimento a tutta la dimensione naturale circostante, che, invece di comprendere nella sua autentica bellezza, tende a coprire delle proprie sensazioni e tormenti.

Anche il testo conclusivo viene introdotto da un’efficace immagine naturale: “è venuto un nero d’inverno / che trasuda gelo alle pareti”, e le pareti si sviluppano nella “manna di una pietra rivolta / al muro della cripta”, con una suggestione di morte e di annientamento dell’uomo, e pure “benedetta da chissà / quale santa santità di crani e ossa”: l’uomo diventa parte di questa immagine solo in qualità di oggetto senza vita, associato al sacro pur con ironia (la “santa santità” ne è certamente un indizio).

L’immagine procede intrecciandovi un refolo di rinascita (“vi nascerà erba di muschio verde e nuova / che si gonfierà all’apparir del secco / refolo dell’aria estiva”), riproponendo il topos classico dell’alternarsi della solennità tremenda della morte e della pervicacia del nuovo vivere; il riferimento all’antichità di questa sapienza brilla nella chiusa, dove tale consapevolezza del mondo e della natura viene ritrasmessa attraverso un’ulteriore immagine efficace (“una rosa antica e velenosa”), che nell’uomo tende a perdere progressivamente il proprio colore, nonostante sia “amata e benvoluta”.
Sembrerebbe, questa, un’ulteriore conferma dell’invito dell’autore a porgere attenzione al mondo e alla natura, al suo mistero immanente e alle dinamiche dell’essere e dello svanire, che tendiamo a dimenticare e a mettere da parte, così presi da noi stessi e dalle nostre sciocche aspirazioni.

Mario Famularo