Strategie di un mondo perduto, Amos Mattio (Stampa 2009, 2021)
Strategie di un mondo perduto di Amos Mattio è una raccolta complessa e originale. Suddivisa in quattro sezioni, si presenta qui, in maniera quasi codificata, un’opera che fa del multiforme, dello sparpagliare e del caos il solo ambiente di lettura di un processo di ricerca, umano e intellettuale, spinto fino alla soglia dell’intellegibilità, laddove «la chiave/ è fuori dalle tavole». Difatti, quello offerto nella trama di questo spartito, di questo «mondo perduto», non è un tempo rettilineo, e tantomeno figlio esplicito delle leggi di causalità, risultando agitato di continuo da progressi e involuzioni. I testi che animano queste pagine e si rimandano di capitolo in capitolo, sembrano il risultato voluto di un patchwork letterario, che ha inizio in un passato più mitico che storico, e dal quale poi prendono vita – per balzi, affondi e lampi – stralci di immagini e memorie, di nomi, di personaggi e riflessioni. Poi giunge un momento, leggendo, in cui sorge il dubbio che sia tutto semplicemente un delirio, un poema arrabattato, ma tutto è troppo pensato perché ciò sia vero, e nasce il sospetto – umanamente devastante – che questo disordine sia in realtà fin troppo ordinato.
Invero, in questo sfrangiarsi di causa-effetto e spazio-tempo, «il pellegrino» – protagonista fumoso di inizio libro –, deve comunque seguire un filo, il suo, il «dialogo a volte sospeso ma mai interrotto» di questo labirinto genealogico, districandosi in uno schema narrativo che pure è innegabilmente presente. L’autore allora, a supporto (o a volte a scherno) di sé e del lettore, porge, in accompagnamento alle poesie di questa sezione, delle prose nelle quali, anche grazie a uno humor puntuto, sembra voler camuffare degli indizi per la decodifica, o anche semplicemente far sapere a chi sta leggendo che se non riesce a seguirne il filo così è giusto che sia, perché «un tassello comincia ad avere significato solo vicino agli altri, quando poco prima era solo un ritaglio di giornale senza significato». Ed è infatti la olistica, forse, l’unica lettura possibile. Queste prose di accompagnamento, che oscillano fra l’auto-esegesi e un recitativo complementare e meta-testuale, non si limitano ad affiancare le poesie, ma ne mantengono integro e ne proseguono l’afflato letterario.
La distorsione spazio-temporale si incarna anche nella scrittura di Mattio. Difatti, se è vero che l’originalità è il tratto distintivo, e certamente moderno, di Strategie di un mondo perduto, è alquanto interessante riconoscerne le radici classiche, che lo affrancano da uno sperimentalismo impubere e che gli consentono di spaziare armonicamente fra latinismi e citazioni, fra sonetti, enjambement, false rime, assonanze interne, chiasmi e virtuosismi metrici. Così il tempo (nello stile letterario e in sé), per quanto non lineare, prende le sembianze di un uroboro, che alla fine torna a masticare passi su se stesso. Attraversando il Qohelet, le filosofie orientali e le stratificazioni di Florenskij, con disincanto misto a orgoglio nostalgico, l’autore è infatti consapevole che «una spira sull’altra la storia torna su se stessa e si ripete in variazioni, improvvisando raramente».
Eppure, per quanto difficile, per quanto effimero, «se cercare è la premessa, disporsi alla ricerca è già qualcosa». A questo si chiama l’autore, a questo è chiamato il suo lettore e, in assoluto, chiunque voglia trovare risposte al senso di questo stare al mondo.
Strategie di un mondo perduto di Amos Mattio è una raccolta magmatica e magnetica, oscura e a tratti ostica, caratterizzata («suo malgrado»?) da un dettato vibrante, limpido e disciplinato, che scroscia contro il filo di una trama narrativa selvatica e inadatta alla doma, che si sfalda al solo sfiorarla, e che si svela lentamente, a sprazzi, quasi per gioco, quasi per caso, come la vita.
Dario Talarico
Torna tra le carte carta
di mille anni, incerta
anche dopo l’attesa: il tempo
fa salti talvolta e risparmia
un angolo di mondo colorato
centosessant’anni fa da un tale
che poi è morto. Ma ritorna
il tempo, e porta tutto,
raccolti gli avanzi, senza scampo,
verso quel solo destino, ma intanto
la carta si stropiccia opaca
sotto le mani, ansiosa
che qualcosa si compia: un sogno
e graffi profondi, un’oncia
alla volta, l’impazienza
dei primi amori, i soli
– forse – uniti alle farfalle,
e tutto torna, cade, vive,
scrive e si raccoglie sulle prime
foglie germinali che non sanno
cos’è l’autunno, rivive
una vita intera, una stagione.
Preso sottobraccio era tornato
un angolo di cielo, strappato
nel bianco della foto un tassello
azzurro fuori posto, e non voleva
ma guardava lontano, oltre la griglia
rarefatta del tempo: ombre di terra
piegata tante volte sotto il peso
delle stesse ambizioni, una fanghiglia
senza memoria, ma viva
involontariamente, suo malgrado.
E qualcosa muoveva ancora,
nonostante tutto, nonostante
il comune destino, un giro
più sopra o più sotto, cocci
di bottiglia aguzzi, meraviglia
semolata e dolciastra, una poltiglia
che fa pena a guardarla.
Ma il meglio
è sempre un ricordo, e l’attesa
di ricucire lo strappo, sottrarre
al bianco l’occhio azzurro, e ritornare
al tempo dell’ovatta, non guardare.
Nel folto delle foglie mi rivolto
senza via di fuga: è fuoco
per tutto l’orizzonte e si condensa
nel fumo ogni speranza, ogni destino
nel gelo di un istante, dove stelle
e fiori e insetti e pulci e scorie grigie
posano incolori nello stesso
pollice quadrato e tutto brucia
da sempre, un’altra volta, e non è l’ultima,
e un varco si è trovato sempre, un passo
nel folto dei rovi, oltre la vita
che conoscevi e la coscienza e l’orlo,
cucito per decenni a ogni certezza.
Si vola senza guida, persi
ma nel posto giusto: tutto brucia.
Vola tra la folla, farfalla
folle e impazzita: ha sentito
l’odore del sangue e il vento
flebile sul collo, perlato
di un vapore sottile. Sbatte
tra i banchi e non li sente,
gli spigoli puntuti sui fianchi,
persa in un alone opalescente
come un ombretto costoso
troppo appariscente. La luce:
la luce dentro gli occhi acceca
ogni ombra di buon senso, colpo
su colpo, smantellati
sguardi e coscienze. Frulla
nel volo estremo, folle
si appiatta a un muro, inerme,
e aspetta di morire o respira
o vuole ritornare bruco, indietro.
Avanzi di futuro rispediti
ai primi mittenti, restii
a riconoscere frutti o semi
di paternità, frammenti
lasciati ad asciugare al vento
solare tra i pianeti, tra milioni
di anni terrestri, un messaggio
rivolto ai suoi padri, un monito
di importanza cruciale in attesa
del momento propizio o del gioco
di un caso dispettoso che congiunge
l’alfa con l’omega, in cerchio,
con somma indifferenza; e noi
dietro al significante, un coccio
che parla di salvezza o nulla.
Importa
poco alla fine la musica
degli angeli agli umani, e alle farfalle
se esistono stagioni oltre domani.