Speciale Silvia Bre: dare forma al mistero

In occasione del compleanno di Silvia Bre (Bergamo, 19/03/1953), Laboratori Poesia omaggia questa poeta con un contributo Speciale, a cura di Fabio Barone, il quale si era già occupato per noi de Le campane (QUI), a cui fa seguito la traduzione di Rocío Bolaños e Andrea Carloni (QUI). Ci piace ricordare anche i contributi dedicati a questa poetessa, apparsi in passato sul nostro lit-blog che ora è cresciuto fino a diventare un vero e proprio Osservatorio poetico internazionale. Pensiamo dunque alla Pillola di poesia firmata da Ilaria Grasso nel 2020 (QUI) e, procedendo ancor più a ritroso nel tempo, fino a giungere agli albori del sito, ecco che troviamo anche una nota di Alessandro Canzian su La fine di quest’arte (QUI).
 
 
 
 

Dare forma al mistero.

Si va senza sapere quante figure di noi porta in dote il destino. È il principio della metamorfosi che non si può predire perché la si scrive sempre dopo, a processo avvenuto. E nel mentre occorre il coraggio di abbracciare, fissandolo negli occhi, l’ignoto in cui si passa fino alla forma che si diventa. Secondo la poetessa, scrittrice e traduttrice bergamasca Silvia Bre, l’iniziazione alla vita e alla sua conoscenza stanno proprio in quel momento di beata confusione tra una forma e l’altra, proprio come avviene alla nascita: «Al non sapere ci si espone, ognuno, individualmente. Ognuno carico dei propri saperi, delle proprie conoscenze accumulate, deve essere capace di esporsi al non sapere, come ci si espone al vento»1. Ed è attraverso la capacità di tollerare questa beata confusione che si avverte il mistero della vita, nel momento esatto in cui, tacendo, ci si affranca dal sapere accumulato e ci si riempie di silenzio, un silenzio attento e contemplativo, un atto dinamico della mente e dei sensi.

Solo poi si torna ad aver bisogno di parlare, di scrivere, fissando delle scaglie di conoscenza all’interno di un libro e proseguendo così dentro un moto che si interromperà solo con la morte: «Questa è la fatalità del mistero che ci è dato essere. Tra dire e sapere, scegliere il dire, solo questo ci fa essere. “Si è la forma che si forma ciecamente”, è una forma sonora, una sostanza verbale che partorisce oscuramente, ignara» (S. Bre, Mistero, cit. a p. 51). E proprio sul ‘dire’ si è sviluppata l’intera carriera letteraria di Silvia Bre, a partire dalle cinque raccolte poetiche finora pubblicate di cui questo Speciale di Laboratori Poesia prende in considerazione le quattro edite da Einaudi, tralasciando la prima (I riposi, Rotundo, 1990): Le barricate misteriose (2001), Marmo (2007), La fine di quest’arte (2015), Le campane (2022).

 

Atonalità

A partire da Le barricate misteriose fino a giungere a Le campane il principio compositivo che sembra dominare, e così chiarire, l’andamento creativo della poetessa bergamasca è quello dell’atonalità – un sistema armonistico introdotto in musica da Arnold Schönberg nella prima metà del Novecento al fine di rompere con la tradizione tonale. Trasposto in forma letteraria, l’atonalità in Bre indica non solo un’assenza quasi totale di dialogo, di architettura discorsiva, tra le sezioni di ogni libro (quel che al contrario, in musica, può dirsi la tonalità o l’accordo), ma anche un’assenza quasi totale di musicalità nei versi, i quali rompono, a parte rari casi, con la metrica di tradizione. Nell’ambito di questa atonalità vive anche il pensiero della scrittrice che si compone di frammenti, lacerti di discorso che si legano in un collage di elementi eterogenei, come fossero singhiozzi o illuminanti balbettii.

Il risultato di questo balbettamento è quello di concedere spazio alla ricerca che caratterizza l’intera opera poetica della Bre: sparire, farsi trasparente nel dettato dei versi e così aprirsi uno spiraglio di conoscenza del reale, di sé medesima e al contempo del mistero: «Viviamo storditi, opacamente. Tra l’evento e noi – tra la folgore e la forma – c’è uno spazio vuoto, e in quell’attimo nasce e vive il mistero» (S. Bre, Mistero, cit. a pag. 40):

Vorrei consigliarti ciò che mi consiglia
questa sera velata di marzo
e non so cosa.
Dovrebbe diventare un’opinione,
un puro assaggio, l’anima che sale
dal paesaggio del mondo aperto al mio terrazzo –
tutto è più intorno – le vite nelle strade,
i mondi dentro i cieli e di sicuro, in qualche punto,
mari. Ci vorrebbe del tempo per spiegare
che allargando lo sguardo
si sparisce, e quanto è bene2.

Morire a sé stessi per andare incontro a conoscenza e mistero, «congiunzione delle nostre nature separate: la comunicabile e l’incomunicabile, la conoscibile e l’inconoscibile» (S. Bre, Mistero, cit. a pag. 41), come conferma la seguente poesia (Le barricate misteriose, pag. 99):

Quello che s’apre è un campo di silenzio.
Io sono qui da tempo, che lo temo.
È così che mi alleno a sentirlo
e alla vita.
 
Noi moriremo,
e forse avremo detto solo questo.
Però l’alba fu vera,
pieni di grazia appena spinti a riva
un paesaggio, le voci,
una figura umana,
la mia casa –
la loro fine semplice e completa.
         Per il suo salto cieco a quella scena
il cuore brucia,
tutto lo spazio grida
e nei polmoni nasce una madre:
                           aria della parola
come una via che sembra breve
e s’allontana.

Atonalità non vuol dire però mancanza di suono, di vibrazione cercata fra le parole, atonale è il discorso dinoccolato e complessivo di Silvia Bre che desidera una ‘forma’ di sparizione, non chiusa in un’architettura consonante ma aperta a un andamento claudicante come chi di fronte a un pianoforte, pigiando ora là ora qua i tasti, tenti la strada del suono in una scala sempre diversa che riesca a esprimere una particolare tensione del pensiero, emotiva ed esistenziale. Nella raccolta Marmo (2007) questa condizione è particolarmente presente:

Lettura pubblica3
 
Il cuore della questione batte profondo.
La lezione si tiene nella quiete
a fronte di distanze abissali,
seduto qualcuno legge le parole cercate
in una fede di suoni,
legge nell’attenzione dell’aria quei riflessi
come se la tensione delle cose pronunciate
trovasse nell’ascolto una cadenza,
loro ritmo sepolto in cui oscillare,
e un io più largo si pensasse vivo, acceso
della luce ondulante che si è acceso.

Una condizione che si evolverà fino a culminare nell’apparenza del puro sonoro in Le campane (2022), attraverso la raccolta La fine di quest’arte (2015) nella quale l’immagine della vita, che per la scrittrice bergamasca corrisponde alle cose, agli «oggetti che ci stanno davanti» e in modo complementare alla «vita inafferrabile che pulsa sotto alla nostra epidermide conoscitiva» (S. Bre, Mistero, cit. alle pp. 37-39), resta la primaria forza di adesione al reale di un intelletto che afferra e comunica, dimentica per poi aprirsi di nuovo e afferrare. Si legga la poesia seguente:

Sono momenti
provo a restare dentro alla mia norma
ad aderire solo a ciò che vedo
 
lo strettamente vero, il giornale, le mani
 
io tento fortemente di astenermi.
 
Ma cala un buio e vado in cerca
di un altro
 
il mutilato
 
quello che gira solo mostrandosi
per poco in qualche danza
quello che canta
 
(so a malapena che intorno c’è qualcosa –
sono paure
pare io debba cedere terreni
tutto ciò che conosco
pare sia così per tutti:
aprire un po’ la bocca, prima,
come appena prima di morire –
 
è questa lingua umana
che si forma
e lotta col dolore che trattiene)4.

 

Palinodia

Si arriva così a Le campane (2022) e, prima di concludere, si rende necessaria una breve ma sincera palinodia a suggello di quanto esposto finora in quanto, tempo addietro, in una recensione al libro summenzionato e sempre in questa sede, si è parlato della raccolta senza aver tenuto debitamente conto dell’intero – finora – percorso esistenziale e poetico di Silvia Bre. Proprio alla luce di questo percorso si intende con maggior chiarezza la compattezza e coerenza espressiva che attraversa il corpus poetico della poetessa di origini bergamasche. Non se ne sono certo svelate le ragioni profonde, ctonie, ma di certo qualche traccia di luce è stata gettata. D’altronde, come insegnano i versi stessi della Bre, la conoscenza porta sempre con sé uno scarto, un quid dal quale ci si sentirà sempre separati e insieme al quale dover imparare a convivere. Un quid che è come una frontiera invalicabile, dietro la quale si rivela la specifica condizione di povertà conoscitiva che ci appartiene.

Ma si torni alla raccolta, dove proprio lo stato di quella povertà conoscitiva, di quella umiltà, scatena il desiderio di voler squarciare il velo che copre il reale. È questo desiderio che genera quella tensione emotiva e del pensiero che, pizzicata, vuol disfarsi e riconoscersi nel puro suono, prendere slancio dal suo contrappeso ed espandersi – esattamente come una campana. Esistere quel tanto che si può per sparire, caricarsi del reale quel tanto che basta, e si tollera, per ritrarsi, andando via nella speranza di cogliere un seme quanto più prospero di conoscenza: «Quando la marea sale, inonda le strade asciutte, e quando il vento irrompe, e rompe gli steccati fragili, inermi, il suono della campana vibra, risuonando più volte dentro ognuno. Esporsi a questo mistero senza schermi, guardare in volto il senza-forma. Con la possibilità che, in quel volto, si renda visibile il proprio» (S. Bre, Mistero, cit. a pag. 39):

Da qui si scorge la belva che esiste per sparire
e guarda in verticale, riempie di salti, di verbo
il frammezzo tra sole e terra, la cogli nell’arco siderale
che è l’amore sfinito per i giorni,
nell’opera che resta inconclusa a fissare l’eterno5.

Fabio Barone

 
 
La foto di copertina è di Dino Ignani
 
 
 
 

1 Silvia Bre, Mistero, Firenze, Vallecchi, 2022, cit. a p. 18.

2 Silvia Bre, Le barricate misteriose, Torino, Giulio Einaudi editore, 2001, cit. a p. 44.

3 Silvia Bre, Marmo, Torino, Giulio Einaudi editore, 2007, cit. a p. 52.

4 Silvia Bre, La fine di quest’arte, Torino, Giulio Einaudi editore, 2015, cit. a p. 64.

5 Silvia Bre, Le campane, Torino, Giulio Einaudi editore, 2022, cit. a p. 36.