Le campane – Silvia Bre


Le campane, Silvia Bre (Einaudi, 2022)

Un titolo di non poco peso simbolico è impresso sull’ultima raccolta della poetessa e traduttrice Silvia Bre, la cui carriera letteraria, cominciata nel 1990 con I riposi edito da Rotundo Editore, si è costruita per la maggiore attorno alla collana ‘bianca’ di Einaudi escludendo un solo altro titolo edito da Nottetempo nel 2006. Non è scontato sottolineare la rete di visibilità che porta con sé una pubblicazione einaudiana rispetto ad altre case editrici meno ‘potenti’, anche per questo l’attenzione rivolta a valutare la raccolta non dovrà cedere alla soggezione di essere di fronte – impossibile negarlo – a un gigante dell’editoria italiana, nondimeno all’‘aura’ di una poetessa riconosciuta come tale, strapremiata, stimata.

Si diceva, in apertura, del peso simbolico di un titolo quale Le campane, che in questa raccolta non sembra avere rapporti con il sacro di matrice religiosa, dunque di un qualche legame razionale-irrazionale con le sfuggenti qualità di Dio, quanto piuttosto essere – la campana – l’oscillante simbolo dentro il quale si agita «la luce di qualche verità» (pag. 5) del sentire della scrittrice. Sentire del quale è resa traccia con una «grammatica» (ivi) spesso troppo letteraria e virtuosistica, di certo suggestiva ma evanescente. Ne fornisce un esempio il testo di pagina 8, nel quale un non ben definito «punto di fuga sfonda» un non ben definito «disegno». È un testo in cui non si pone il lettore nella condizione di vedere o intravedere ‘qualcosa’ attraverso la lente dei versi, bensì di seguire l’andamento storto di un pensiero che non si risolve e sfuma, in quanto non contenuto da un’immagine né da un dato di realtà indagato o suggerito da un’intuizione che figuri sulla pagina:

E se il punto di fuga sfonda il disegno
e lo diserta senza rigore
dove muore la prospettiva?
Si dispera, la figura, si ribella a se stessa
per saperlo, disfarsi è la sua resistenza.
«Un punto solo m’è maggior letargo
tutto il resto lo so e non lo so
resto in questo sospesa, in nessun luogo visto
congiunta all’incompiuto, muta, immersa».

Proprio il verbo «disfare», contenuto nel testo appena letto, suggerisce un utile filtro attraverso cui guardare a diverse pagine di questa raccolta (cfr. pp. 6, 11, 15, 18, 21, 23, 25, 33-34, 37-38, 44-45, 47, 49, 53-54), il motivo è che la tensione sottostante ai versi non gode della giusta carica, o infrastruttura, al punto da riuscire a costituire una forma di senso. Un motivo che, al contrario, immagino sia cercato da uno scrittore, ovvero quello di gettare attraverso le parole un terreno di senso sul quale porsi in rapporto con la realtà circostante.

Eppure, altrove, qualcun altro ha sostenuto che la volontà di questo libro fosse quella di non voler far parlare di sé, ma di voler essere soltanto letto e percepito attraverso i lacerti di vita che la poetessa ha impresso fra le parole. L’idea esposta non convince affatto anche se la Bre avesse voluto, sin dal titolo, fornirci la chiave attraverso cui leggere gli echi che giungono dai rintocchi delle sue parole proprio perché la grammatica della Bre, al contrario della melodia di una campana che ad ogni rintocco convince per il senso di realtà restituito (basti pensare ai rintocchi dati per segnare l’ora del giorno, l’inizio di un funerale, la fine della celebrazione di un matrimonio ecc.), convince a tratti, a piccoli strappi, allorquando è davvero il corpo della scrittrice «il rintocco della presenza» (pag. 32), quel corpo che «vuole coincidere» con il «trono del reale» (ivi).

Leggendo la cinquantina di testi contenuti in questa raccolta, dell’impermanenza del reale vi sono poche e davvero nitide immagini: regna piuttosto la maestria di un pensiero che chiama altro pensiero al solo fine di avvoltolarsi su sé stesso fino a svanire. Non si distinguono figure almeno sfumate nei contorni e, in quei pochi versi dialogati nei quali la scrittrice chiama un ‘tu’ (pag. 19), l’impressione non è quella di un coinvolgimento plurale dal quale percepire in modo netto il tremore di chi scrive, un tremore aperto e ferito di fronte a quel ‘tu’, l’impressione è altra ed è anche altrove: un pensiero a cavallo d’un solipsismo pieno:

«Vieni qui, ora, tu che ascolti,
c’è questo fenomeno nel mondo
uno che dice vieni a qualcuno
tra le ombre che li sfidano, e fortune
e rami che li dividono come rami,
brevi rumori in cui crollare
per un sonno fulminante di frazioni
e sottomisure di un gran tempo –
un’intesa senza le persone.
Mi sono già sdraiata in questo antro a spiare la forbice
almeno un attimo prima del taglio
per incontrare tra le mille luci il dopo
che arriva senza lasciare fiato
mentre si ammira – vieni, ho solo te, sei tutto.
La riva sta per tornare com’era prima
dell’esile momento in cui parlo, sei tu che m’intrattieni
fino all’ultimo con questo discorso lungo –
ho seguito il suo filo per accostarmi
come un viso, un orecchio appoggiato contro il muro
con il cuore in tumulto con cui senti
il cuore di qualcuno. Che sia mio, o tuo
andiamo a rovinare la parvenza che li separa».

Una poetica non figurativa lega, dunque, l’indubbia capacità di scrittura della Bre al tono oggi conclamato dell’understatement deangelisiano, nel quale una filosofia dell’‘ora’, dell’‘attimo’, allarga i confini della percezione fino a rendere porosi i contorni del proprio sentire. Sparire, quindi. Nient’altro.
L’intenzione che sembra sottostare al farsi del libro non è quella di parlare ‘di’ e ‘con’ il mondo, delle porzioni del reale vissute dalla scrittrice e riflesse nel tono visivo della versificazione, quanto piuttosto di parlare ‘sul’ mondo e non attraverso di esso, con il risultato di offrire deboli tracce di vita: «È l’adesso è perenne/ non si calma il suo tremito lungo/ che gela il pensiero/ tanto è nudo di pentimento/ e senza un’orma/ la sua costanza è ancora più fedele/ del suo eterno fulmineo tradimento/ le voci ardono in lui tutte presenti/ è innamorato è tutto trasparente.» (pag. 10).
Sembra, infine, che nelle ultime pagine del libro la Bre voglia sottolineare il rovello che la punge: «mentre dormo la vita ancora sogno/ la quiete che mi accerchia e sta sospesa» (pag. 53). Si consolida, così, l’impressione che ha agito su di me leggendo questi versi: un’inclinazione psicologica che ha il suo centro nella perenne attesa di un ‘momento’ dal quale né una fede, né una personale visione del mondo viene fuori. È poi un ‘momento’ espresso da un dettato che ha rotto completamente con ogni sorta di metrica e che abita nel ritmo di una prosa spezzata e scorrevole, la quale riesce, di certo, a farsi penetrante quando immaginazione, visione e sentire si allineano in versi-immagini che portano su di sé la forza visibile di un sentimento del mondo, perché a regnare, a quel punto, è una vera «lingua celeste dello sparire» (pag. 48) e non un artificio chiamato a sopperire la sua mancanza.

Fabio Barone

 
 
 
 
Rosa, retta da un velo, la vertigine di spine
fa un cerchio che imprigiona e dopo uccide
queste sirene che dicono la guerra
girando intorno alla stessa vita e qui le scambiano.
Vai a continuare, vai a finire l’opera oltre i confini.
L’istinto del pensiero può placarsi.
Specchiarsi in queste parole è il paradiso.
 
 
 
 
 
 
Ero là, ecco la storia
una campana che rimbalza da lontano
e la distanza da domare si consegna
corpi adorati tradotti dall’udito, tutto un cielo
ammanettato in gola.
 
 
 
 
 
 

Bergamo

Pensala, inclusa nel corpo penitente
girato sotto per coprirsi con la schiena, in fuga
e tra le labbra la luce fragorosa che s’impenna
la parola eretica. Poi la segui, è un fiato.
Vuole che i suoi raggi s’impalino
e con il corpo fuso al mondo nascere domani
e non morire mai, così come beatitudine vorrebbe.
La musa del presente viene meno.
 
Ora monta la scia dei veggenti, hanno portato
la vampa stregata nelle ciglia l’attimo prima,
hanno saputo, e vanno, geni dell’aria estesa
alla primavera ossidrica, ai campi bestemmiati
che sbranano l’ombra, un colosso glaciale li guida
nel beta, nell’alpha, e poi l’occhio eterno.
 
E tu mantieni l’attimo soltanto, la gabbia chiusa, l’angelo
col fiato rotto in ogni gola, pensa nuovamente
questo guarire in trasparenza dove il cielo
sa il credo del tuo dolore e cedi alla miseria alata,
già ti devasti.