SPECIALE SALONE DEL LIBRO DI TORINO: Apolide – Mary Barbara Tolusso

Apolide - Mary Barbara TolussoApolide, Mary Barbara Tolusso (Mondadori, 2022)

Molti dei poeti della generazione di Mary Barbara Tolusso, seguitando chi li aveva immediatamente preceduti, hanno conservato una caratterizzante adesione alla propria identità territoriale e geografica, spesso evidenziata con particolare precisione nel corpo dei testi, al punto di permettere di identificare agevolmente località, borghi, strade, con precisione dettagliatissima nelle loro opere – a volte sin dal titolo stesso delle raccolte o delle singole liriche; una delle particolarità della poesia immediatamente successiva è proprio, a parere di chi scrive, la progressiva perdita di questo senso del luogo, fino a casi di radicale spossessamento e assenza di alcuna coordinata spaziale (o persino temporale): ecco, nei testi qui proposti, tratti dalla raccolta “Apolide” (e già su questo titolo molto ci sarebbe da dire) edita per Mondadori nella collana “Lo Specchio”, si può testimoniare un preciso senso di estraneità e lontananza da un’appartenenza radicata a un preciso territorio, estendendo il dettato a una collettività egualmente scollata dalle dinamiche dell’esserci. Se da un lato l’io del testo osserva con attenzione il brusio attivo delle dinamiche umane con un distacco salvifico, da un lato, e insopportabile, dall’altro, riflette altresì sul ruolo della nostra percezione del tempo e del luogo, con un’attenzione particolare al predominio del corpo e della fisicità sulla ragione e sulla mente e – come conseguenza naturale – sui costrutti del linguaggio e della nominazione, sottomessi al gesto e all’impulso dell’attimo.

Il primo testo inizia con una negazione che nasconde l’ambivalenza di un’affermazione (“Di nulla possiamo lamentarci” in qualche modo significa che possiamo lamentarci proprio del nulla): l’ansia che può derivare da tale “angusto / passaggio” può essere controllata con “un attivo / controllo della respirazione”, “quiete distesa” che evidenzia come sia, appunto, il “leggero movimento del corpo” a rendere il moto d’insieme armonico e uniforme, “senza volerlo” (proprio perché è procedimento corporale prima che intellettivo), che si realizza in una “commossa / partecipazione dal terzo pianeta del sole”; qui il senso del luogo, come anticipato, si estende addirittura al pianeta intero, pur senza una percezione particolarmente distaccata, nonostante la lucida ironia.

Ricorre subito dopo proprio “il nulla” o, meglio, l’incapacità di sentire, intollerabile proprio perché messa a confronto con l’eccessiva ostentazione di una emotività esasperata (“non si può / sopportare che voi sentiate / tanto e che io non senta niente”); due aspetti, a ben vedere, dello stesso fenomeno, posizioni estreme che sono verosimilmente conseguenza della perdita di un rapporto naturale e sereno con il “qui ed ora”, con l’esserci nel tempo e nel luogo (sensazione più animale che umana) – questione che si ricollega inevitabilmente al punto di partenza di questa breve nota.

Nell’ultimo testo selezionato, infine, la relazione con il tempo viene analizzata con attenzione, e l’esortazione principale è quella a concentrarsi sulla febbre dell’attimo, e non sulla deformazione intellettiva del ricordo: “I rimpianti fanno povere le cose, fanno l’amore / storto”, proprio a dire che soffermarsi sul tempo andato delle cose le mortifica, le annienta nella propria parodia distorta, allontana ogni possibilità di amarle; “chi pensa al passato invecchia / prima”, si ribadisce, con un richiamo al noli respicere del mito di Orfeo (“non girarsi mai verso la fine”), che richiama inevitabilmente sia gli “inferi” della realtà terrestre, sia il necessario confronto con la morte, che alimenta la riflessione sul nostro esistere in relazione con il divenire.

La sottile precisione del reale, del mondo, del cammino, non può che manifestarsi nel momento presente, perfettamente riassunto nel verso finale, amplificato e circoscritto dal climax che lo precede: in quell’“ora” ogni tentazione di allontanarsi dalla realtà concreta del momento e dei corpi attraverso la deformante attività del pensiero, del ricordo e del rimpianto, dovrà dissolversi dentro “la tazza di un caffè … nella feroce precisione di un nome / che ritorna al tavolo di un bar”: anche il riferimento al “cammino” appare come un invito al dinamismo, che non dovrebbe mai cedere all’impulso di un immobilismo del corpo e della mente, che mal si sposerebbe all’universale e collettivo fermento vitale delle cose e degli uomini che ci circondano – nonostante tutto.

Mario Famularo

 
 
 
 

Di nulla possiamo lamentarci.
Ci siamo fatti largo nell’angusto
passaggio verso la feritoia
per decidere, infine, un attivo
controllo della respirazione.
E una quiete distesa dove
ognuno conduce, senza volerlo,
questo leggero movimento del corpo
con silenziosa, commossa
partecipazione dal terzo pianeta del sole.
 
 
 
 
 
 
Agli uccelli deve essere visibile
da secoli lo stagno dove si lavano le pecore
ammaestrate a false parentele.
Basta mettersi in salvo in una biglietteria
come chi si mette in coda per deportarsi
con metodo, sotto l’esofago,
tra la gola e l’insonnia, non si può
sopportare che voi sentiate
tanto e che io non senta niente.
 
 
 
 
 
 
I rimpianti fanno povere le cose, fanno l’amore
storto. Dicono che chi pensa al passato invecchia
prima. Dicono di non girarsi mai verso la fine.
Il ricordo è un esile risveglio di corpi, mani
mobili universi in agguato…
Il mondo è sottile
tutti erano già in cammino
nella feroce precisione di un nome
che ritorna al tavolo di un bar, dentro
la tazza di un caffè, in fondo a un nome:
ora.