Speciale Pasolini: poeta tra apocalisse e profezia

La tensione apocalittica che attraversa l’opera di Pasolini a partire dagli anni Sessanta ha un’origine poetica. È nel seno della poesia, infatti, che il rapporto del poeta con le forme coeve di potere più o meno istituito si delinea come una crisi epocale. «Gli anni cinquanta sono finiti nel mondo»,1 e con essi il «sogno della ragione»2 vagheggiato all’altezza delle Ceneri di Gramsci di una auspicata connessione sentimentale tra intellettuali e popolo, ovvero di una fruizione su larga scala della verità etico-civile della poesia. Nel passaggio di decennio, essere poeta contemporaneo “al” mondo e “nel” mondo, significa rivestire un ruolo marginale e anacronistico rispetto al nuovo corso della Storia, e quindi prendere atto della «mancanza di richiesta di poesia»3 da parte di una società asservita ai dogmi del Nuovo Capitale. Da una parte la questione ha certamente una portata universale in senso antropologico, ma ciò che interessa più da vicino l’opera di Pasolini è la minaccia al fondamento stesso della poesia come principio vitale del logos. L’annuncio provocatorio (e apocalittico) della «nascita dell’italiano come lingua nazionale» – e, di conseguenza, della morte della lingua della poesia – scandito dal pulpito delle Nuove Questioni linguistiche (1964), è lì a testimoniare il senso di un trauma epocale.4 Le ragioni della denuncia di Pasolini sono molte chiare e riguardano la corruzione del senso della Storia, l’idea della tradizione come deposito di una memoria comunitaria e intergenerazionale; un tràdere che è, appunto, consegna di una eredità viva.

Con più evidenza questo nodo cruciale emerge in Poesia in forma di rosa dove la dialettica tra «Storia» e «Nuova Preistoria» (o «Dopostoria») si configura a partire da un motivo di palingenesi apocalittica il cui nucleo è facilmente rintracciabile nell’escatologia testamentaria giudaico-cristiana. In questa direzione seguiamo la chiave dell’ebraismo d’elezione su cui insiste la raccolta del ’64,5 e più a fondo l’incidenza della filosofia della storia di Walter Benjamin6 attraverso la matrice comune – tanto per il filosofo tedesco quanto per il poeta italiano – di Paolo di Tarso, figura ben assimilata nell’immaginario poetografico di Pasolini già dai tempi di Casarsa.7

Ricorderemo in proposito che sfrondando lo scenario dell’apocalittica giudaica in favore della parousìa, cioè del ritorno di Cristo sulla Terra, è proprio San Paolo a tratteggiare una visione della storia in relazione al kairos cristologico della salvezza, cioè concepita a partire da un punto che segna un discrimine tra “prima” e “dopo” nel corso storico.8 Questo è senz’altro un terreno scivoloso e non privo di tormenti per Pasolini, il quale infatti nel “suo” Vangelo di quello stesso 1964 attribuisce una natura meramente poetica all’Evento cristico.9 Ad ogni modo, è in forza di questo sostrato paolino che il concetto di «Nuova Preistoria», presentato in Poesia in forma di rosa come un bivio tragico10, acquista una pienezza di significato che non lo appiattisce al solo orizzonte culturale degli anni Sessanta. È evidente che per Pasolini la fine della Storia coincide con la fine del tempo cristiano (il timp furlan delle origini della poesia), con un arco temporale segnato indelebilmente dal sacrificio di Cristo. La curvatura religioso-secolare del problema riflette però un’angoscia che riguarda soprattutto il senso del fare poesia.

Se a venire minacciata è, nello specifico, la trasmissione del messaggio evangelico dal passato al futuro, lo è anche, più in generale, il senso storico che si nutre del dialogo (anche in termini conflittuali) tra le generazioni. Accompagnando i versi della Profezia di Alì, espunta dalla seconda edizione di Poesia in forma di rosa del giugno 1964, Pasolini afferma che «per conoscere il futuro, dovrei conoscere il passato, possedere il presente. Conosco male il passato, possiedo male il presente. Non contano le profezie dei bambini! E tanto meno quelle dei poeti come son io! Perché sono, ancora, soltanto un poeta».11

Stando così le cose, la «poesia profetica» di Pietro II, la cui elezione pontificia avviene «per amore poetico di Cristo», si fa carico di annunciare urbi et orbi l’inizio di una nuova epoca post-cristiana: «Nessuno lo capisce, né i borghesi né i barbari. / L’età è la nostra, solo più prossima alla fine, / ed è l’inizio della Nuova Preistoria».12 La contrazione del tempo storico a vantaggio dell’alba di un «Nuovo / Corso della Storia» – da cui il poeta è tagliato fuori e dove «sta per morire / l’idea dell’uomo che compare nei grandi mattini / dell’Italia, o dell’India»13 – sembra tradurre abbastanza fedelmente l’idea benjaminiana della storia quale luogo della contrapposizione tra la scansione del kronos da un lato e il kairos messianico dall’altro.14 Il sottofondo paolino-cristologico di questa dinamica spicca più nettamente nelle battute finali della raccolta che invitano all’attesa di «un nuovo Grande Ebreo un nuovo TUTTO È / – a cui il mondo sputtanato si rivolti»,15 e quindi spronano alla ricomposizione della frattura del tempo:

Tornate, Ebrei,
agli albori di questa Preistoria,
 
che alla maggioranza sorride come Realtà:
perdita dell’umanità e ricostituzione
culturale del nuovo uomo […].
 
Il nuovo corso della realtà
 
è così ammesso e accettato. Tornate,
Ebrei, a contraddirlo, coi quattro
gatti che hanno finalmente chiarito
 
il loro destino: va verso il futuro
il Potere, e lo segue, nell’atto trionfante,
l’Opposizione, potere nel potere».16

Se Pasolini avverte che «la fine / del Mondo è già accaduta: una cosa / muta, calata nella controluce del crepuscolo»,17 è solo perché «l’eone del mondo presente», per dirla con il San Paolo della Lettera agli Efesini (2, 2), si è cristallizzato in un «vecchio evento» che non ha più parole di speranza per le donne e gli uomini contemporanei: «Ah, sacro Novecento, regione dell’anima / in cui l’Apocalisse è un vecchio evento!».18 Il poeta allora riconosce al kairos “rivoluzionario” della croce – interruzione della Legge mosaica e della linearità cronologica della storia, secondo il messaggio della Lettera ai Romani – il potere di legittimare la separazione tra “vecchio” e “nuovo” (come nel canone cristiano delle Scritture), tra passato e futuro, tra tempo dell’elegia e tempo profetico:

Piansi
a quell’immagine
che in anticipo sui secoli
vedevo scomparire dal nostro mondo
ma non conoscendo i termini usati nella cerchia
eletta di quel mondo per esprimere l’addio, adoperai
cursus del Vecchio Testamento, calchi neo-novecenteschi, e profetai
profetai una nuova Nuova Preistoria – non meglio identificata – dove
una Classe diveniva Razza al tremendo humour di un Papa,
con Rivoluzioni in forma di croce, al comando
di Accattoni e Alì dagli Occhi Azzurri.19

Il «tempo che resta» (ancora la Lettera ai Romani),20 per questo Pasolini interprete di San Paolo, è il tempo della discesa dei «popoli barbari» che alla fine della storia verranno «per insegnare ai compagni operai la gioia della vita – / per insegnare ai borghesi / la gioia della libertà – / per insegnare ai cristiani / la gioia della morte».21 A questo punto, però, la parola della poesia si arresta di fronte all’indicibile temporale; il futuro profetizzato, infatti, è così remoto da essere, paradossalmente, già “preistoria”, o forse soltanto un tempo mai accaduto: «Era il tempo / quando una nuova cristianità / riduceva a penombra il mondo / del capitale».22 Così la visione de La nuova storia (altro calligramma “in forma di croce” espunto dalla seconda edizione del libro) diventa azimutale, eterea, disincarnata; in altre parole, fuori dalla storia. La «forza del Passato» che infatti si libra sul paesaggio industrializzato della pianura padana è un’anima che attesta lo scempio delle «sacrileghe calci»23 del «Barocco del Neo-Capitalismo»,24 in contrapposizione all’arco neoclassico, ai ruderi e alle pale d’altare da cui essa invece proviene.25

L’epoca pneumatica, sembra volerci suggerire Pasolini, è passata. Il “tempo che resta”, la durata paolina dell’eschaton, richiede di custodire il senso poetologico del sacro a dispetto della conversione capitalistica della società borghese rea di avere rimosso dal proprio orizzonte di valori tanto il sacro quanto la poesia. La «visione del mondo epico-religiosa» di Pasolini, culminante nella resa del Vangelo, è un fatto di natura essenzialmente poetica poiché, se osserviamo bene, essa tiene insieme il momento dell’Apocalisse – intesa dall’autore sia letteralmente come rivelazione che come agente destruens – con quello della Profezia che più si avvicina all’intenzione della poesia.

Ma cosa accade nel momento in cui questi due elementi vengono scissi; se cioè alla parola apocalittica venisse meno la forza della poesia-profezia? Si può leggere l’ultimo periodo dell’opera di Pasolini, diciamo dal 1964 fino alla morte, come l’incessante e urgente tentativo di rispondere a questa domanda. Teorema e il “corollario” San Paolo (la sceneggiatura mai diventata film), entrambi del 1968, nascono da questa interrogazione. A questo proposito, sulla scorta degli studi di Ernesto De Martino sulle «apocalissi culturali» delle società contemporanee, Tomaso Subini legge Teorema come «un moderno testo apocalittico»,26 ovvero «il referto steso da un antropologo demartiniano nel corso di una spedizione presso una famiglia milanese attraversata da una grave “crisi del comportamento” che si configura per l’appunto come una vera e propria apocalisse esistenziale, familiare e sociale».27 Secondo questa linea interpretativa, l’incontro con l’Ospite sacro di cui fanno esperienza i membri della famiglia dell’alta borghesia lombarda si colloca «sulla linea dell’apocalittica senza eschaton studiata da De Martino».28 Unica eccezione è la santa proletaria Emilia, personaggio decisamente “diverso” nel suo incarnare il valore di una vita autentica, di cui lo stesso Pasolini ammette che «ha qualcosa dell’Apocalisse».29

Sempre secondo Subini, l’identità dell’Ospite misterioso attingerebbe, oltre che all’immaginario dionisiaco, «più che al mito di Cristo morto e risorto […] a quello del Cristo della parusìa».30 La storia del padre, Paolo (nomen omen), delineata sia nel romanzo che nel film come la parabola in declino del sacro presso il mondo contemporaneo – il “teorema” da dimostrare circa la crisi di una “vera” presenza31 –, ci offre però le coordinate sul tipo di parusìa che dobbiamo aspettarci. Come l’apostolo cristiano di cui porta il nome, il capofamiglia di Teorema subisce in effetti una “conversione” («da possessore a posseduto») che lo espropria del proprio potere, del bene capitalistico per eccellenza (la fabbrica), ma senza però configurare uno spiraglio soteriologico cristianamente inteso. La tesi che qui Pasolini intende sostenere (e dimostrare) è che la borghesia «ha sostituito l’anima alla coscienza».32 Così mentre l’apostolo Paolo continua a camminare tra le dune del deserto, che esprimono la «presenza» monotona e unica del Dio biblico («Paolo andava, andava, e ogni suo passo era una conferma. […] Qualsiasi cosa Paolo pensasse, era contaminata e dominata da quella presenza»33), l’omonimo protagonista di Teorema, perso nelle lande desolate di una contemporaneità alienata e spaesante, resta nell’impossibilità di verbalizzare (trasumanar significar per verba…) la propria esperienza.

È comunque a un intento di versificazione, o quantomeno allo scheletro della poesia, che Pasolini affida la ragione di questo scacco:

E cosa dire di me?
Di me che sono dove ero, e ero dove sono,
automa di una persona reale
mandato nel deserto a camminare per essa?
IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE.
Triste risultato, se questo deserto io l’ho scelto
come il luogo vero e reale della mia vita!
[…] Ma – non certo per il popolo d’Israele o l’apostolo Paolo –
questo significato nuovo mi resta indecifrabile.34

L’urlo finale di Paolo, «in cui in fondo all’ansia / si sente qualche vile accenno di speranza»,35 è «destinato a durare oltre ogni possibile fine»,36 proprio come il travaglio della creazione di cui parla la Lettera ai Romani (8, 22) nonché come lo stesso grido che concludeva Bestemmia («Nessuno potrà mai scrivere alla nostra storia la parola Fine»37). Lo spettatore del Vangelo secondo Matteo, e più in generale il lettore di Pasolini, sa bene che questo urlo (Mt 27, 50), inscrivendosi nella cornice del logos della croce, ha la dignità della parola di poesia, la sola che per l’autore di Casarsa abbia un senso. È per mezzo di questo urlo che la poesia secondo Pasolini trova infine il più alto compimento apocalittico-profetico: «Ed ecco, io sono con voi sempre sino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).38

Pietro Russo

 
 
 
 
 
 

1 Pier Paolo Pasolini, La mancanza di richiesta di poesia, in Id., Poesia in forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, Mondadori (“I Meridiani”), Milano, 2003, vol. 1, p. 1157. D’ora in avanti si farà riferimento a questa edizione con la sigla TP 1 per il volume 1 e TP 2 per il volume 2.

2 Id., Il sogno della ragione, TP 1, p. 1107.

3 Id., La mancanza di richiesta di poesia, cit., p. 1157.

4 Id., Nuove questioni linguistiche, in Id., Empirismo eretico, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mondadori (“I Meridiani”), Milano, 1999, vol. 1, p. 1265sgg.

5 Cfr. la quinta sezione di PFDR, Israele, TP 1, pp. 1211-1225.

6 Sulla questione cfr. il fascicolo di «Studi pasoliniani», 13, 2019, interamente dedicato alla lettura che Pasolini fa di Benjamin e, prima ancora, il saggio pionieristico di Antonio Sichera, La consegna del figlio. “Poesia in forma di rosa” di Pasolini, Milella, Lecce, 1997, pp. 106-110.

7 A titolo esemplificativo, cfr. la lettera di Pasolini a Don Giovanni Rossi datata 26.12.1964, a cui il regista del Vangelo confessa la sua condizione sui generis di “staffato” paolino: «Sono “bloccato”, caro Don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. […] Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio» (P. P. Pasolini, Le lettere, nuova edizione a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini, Garzanti, Milano, 2021, pp. 1297-8). Inoltre ci permettiamo di rimandare a Pietro Russo, Potere e santità: il San Paolo di Pasolini, in Contronarrazioni. Il racconto del potere nella modernità letteraria, Atti del XXII Convegno Internazionale della MOD (17-9 giugno 2021), a cura di E. Mondello, G. Nisini, M. Venturini, ETS, Pisa, 2023, tomo I, pp. 245-251.

8 Cfr. Romano Penna, Paolo di Tarso. Un cristianesimo possibile, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1992.

9 P. P. Pasolini, Confessioni tecniche, in Id. Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Mondadori (“I Meridiani”), Milano, 2001, vol. 2, pp. 2768-2781 (d’ora in poi PC 2; ugualmente il primo volume sarà PC 1).

10 Id., [Intervista rilasciata ad Alberto Arbasino], in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mondadori (“I Meridiani”), Milano, 1999, p. 1572: «perdermi nella preistoria meridionale, africana, nei reami di Bandung, o gettarmi a capofitto nella preistoria del neocapitalismo, nella meccanicità della vita delle popolazioni ad alto livello industriale».

11 Cfr. Note e notizie sui testi, in TP 2, p. 1748.

12 P. P. Pasolini, Pietro II, TP 1, pp. 1148-9.

13 Id., Una disperata vitalità, TP 1, p. 1206.

14 Cfr. A. Sichera, La consegna del figlio, cit., p. 121.

15 P. P. Pasolini, Progetto di opere future, TP 1, p. 1254.

16 Ivi, pp. 1255-6.

17 Id., Poesie mondane, TP 1, p. 1100.

18 Ibidem.

19 Id., Una disperata vitalità, TP 1, p. 1206.

20 Sulla specifica questione paolina può essere utile incrociare il saggio di Giorgio Agamben, Il testo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

21 P. P. Pasolini, Profezia, in Appendici a «Poesia in forma di rosa», TP 1, p. 1291.

22 Ivi, p. 1286.

23Id., La nuova storia, in Appendici a «Poesia in forma di rosa», TP 1, p. 1277.

24 Id., Una disperata vitalità, TP 1, p. 1167.

25 Cfr. Id., Poesie mondane, TP 1, pp. 1098-9: «Un solo rudere, sogno di un arco, / di una volta romana o romanica, / […]. / Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare […]».

26 Tomaso Subini, Teorema e la fine del mondo, in Pasolini e l’interrogazione del sacro, a cura di Angela Felice e Gian Paolo Gri, Marsilio, Venezia, 2013, pp. 139-146 (139).

27 Ivi, p. 141.

28 Ivi, p. 143.

29 Cfr. l’intervista a Pasolini di C. Cederna, Tra le braccia dell’arcangelo, «L’Espresso», 21 aprile 1968, p. 17.

30 T. Subini, Teorema e la fine del mondo, cit., p. 145.

31 Cfr. Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino, 1977 [2 ed.].

32 P. P. Pasolini, Teorema, in Id., Romanzi e racconti, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mondadori (“I Meridiani”), Milano, 1998, vol. 2, pp. 1035-8.

33 Ivi, p. 964.

34 Ivi, pp. 1053-4.

35 Ivi, p. 1055.

36 Ivi, p. 1056.

37 Id., Bestemmia, in TP 2, p. 1107.

38 Id., PC 1, p. 652.

 
 
In copertina foto © Deborah Beer e Gideon Bachmann, Archivio Cinemazero Images Pordenone