Getsemani – Luca Pizzolitto


Il libro Getsemani di Luca Pizzolitto (edito da peQuod nel 2023 e prefato da Roberto Deidier) porta in copertina un disegno stilizzato da una fotografia di Hengki Koentjoro, come ad assimilare anche alla poesia i caratteri di essenzialità, contemplazione e mistero del fotografo indonesiano. Il Getsemani è infatti per il poeta soprattutto una visione della mente, oltre che un luogo fisico, ossia l’orto degli ulivi in cui, secondo le scritture evangeliche, Cristo veglia in solitudine prima della cattura e della crocifissione. Quel che avviene in questo luogo-simbolo è un’intima contesa tra l’invocazione e il silenzio, la richiesta di sostegno e l’abbandono. Il divino svolge quasi un ruolo secondario, se al centro è l’essere umano lasciato solo a fronteggiare la sua sofferenza, a raccogliere in sé ogni risorsa per affrontare il suo destino. Il destino che tocca a ognuno di noi, fare i conti con il dolore e con la morte, che sia la propria o quella di un padre. Perché è questo il filo emozionale seguito dall’autore per comporre la raccolta, il canto per la scomparsa del padre. Si sono soffermati nello stesso giardino anche altri poeti, tra i quali in particolare Antonella Anedda. I suoi versi si possono accostare per similitudine del sentimento al Getsemani di Pizzolitto: «C’è una pena che ignoro / se mi aspetta in un orto di buio, di paura / o più semplicemente nel cortile / vicino al tronco dell’albero di giuda» (Getsemani, in Dal balcone del corpo).

La poesia di Pizzolitto inizia col tracciare una Geografia della sete (titolo della sezione di apertura), definendo il motivo che guida questa prima parte con termini che afferiscono al corpo e alla sensazione di arsura che prova chi assiste impotente al disfacimento della vita: «Cadono addosso i giorni, / aria pesa scalza consuma / la carne – nel tempo altro, / refusi d’ombra sulle tue mani, / vicino al pozzo rimane, fredda, // rimane la sete. // Le lunghe veglie d’inverno, / la ferita accesa delle tue labbra». La sete è parola-seme che ricorre in tutto il libro, principale indizio di una ricerca inesausta, di un desiderio di conoscenza e di eterno che non trova pacificazione. Si susseguono con insistenza espressioni e termini che ribadiscono il concetto o vi alludono per contrasto: «vuota memoria dell’acqua», «deserto di spine», «sorgente riarsa», «l’eterna sete», «separate / acque al deserto / della mia sete», «il tuo corpo è terra / bruciata».

Prevale una sorta di arsione dei sensi e dell’intelletto, che non si attenua nella sezione seguente, dal titolo Nelle stanze senza fuoco. Qui subentra un tempo che consuma e trasforma «in pietra la nuda (tua) carne». Si è compiuta la sottrazione della luce, del calore, del corpo amato: «Tradito e perso l’istante / esatto del fuoco / ombra rubata al sole // la follia del sonno / disfare le stanze in cui / abbiamo vissuto // – ho cercato casa, riparo nel vento». La sosta nel giardino di Getsemani produce solitudine e impotenza dinanzi alla morte che cresce, e resta dentro. È il punto in cui avviene l’incontro con la parte più incognita, più profonda di sé: «Sporgersi cercando / di conservare se stessi, / piegarsi al niente».

Solo nella sezione Noi resi a noi stessi si giunge a un allentamento, a una distensione dello spirito. Dopo l’acume della sofferenza, dopo lo scioglimento della lotta tra vita e morte, le forze abbandonano e il silenzio copre ogni cosa. Si aprono «i giorni della solitudine», «ora che la sera cancella / il tuo viso, ora che anche / il silenzio ci guarda e non / appartiene». Tuttavia, la voce ancora risuona e si ostina a chiedere «ciò che resta di noi, / dell’avanzo d’un nero dolore». Nei testi racchiusi nella serie successiva, Come i gigli dei campi, si compie la resa dell’umano alla propria fragilità, alla vita nella sua primigenia innocenza: «Mi arrendo all’ineffabile // ancestrale silenzio / in luminoso vuoto».

I versi hanno la brevità e la luminescenza del lampo, si muovono per scarti improvvisi e immagini frante. Una sequenza di frammenti, tra l’immaginario e il vissuto, che vanno a comporre una visione allo stesso tempo unitaria e composita, estroflessa e riflessiva. Lo stile è lineare ed essenziale, del tutto scevro di ridondanze e asperità, e il linguaggio asciutto, quasi scarnificato. Tuttavia, il senso non sempre è immediato, laddove le frequentissime ellissi consentono vie di fuga dal significato esplicito, mantenendo intatta la tensione all’altrove. Un altro aspetto non trascurabile è la scelta di utilizzare il corsivo per evidenziare un’idea, un’immagine, una sensazione, ottenendo una sorta di quadro a sbalzi e chiaroscuri. Allo stesso modo risaltano gli innesti di citazioni dai Salmi, a testimoniare la forte spinta spirituale alla base della poetica di Pizzolitto.

Nella dedica finale dei testi di Parole per Ugo la parola accoglie il lascito degli assenti, si fa memoria e grazia di rinascita: «Ora attendiamo soli / il giorno, nel nascere al nuovo canto. // Il tuo cuore è cieli quieti e lontananza».

Daniela Pericone

 
 
 
 
Erba amara, fatica è la resa
incondizionata a Dio
 
bellezza che volge in pietra,
morire oggi nel deserto delle
cose, la fine immatura del giorno
 
mia vita,
              mia vita involontaria.
 
 
 
 
 
 
Gialla rosa irrisolta, profezia
della caduta, dono al sacrificio
delle mani
 
– vivi in disparte,
nessuno ti vede entrare.
 
Questa gioia consuma trasforma
in pietra la nuda tua carne.
 
 
 
 
 
 
Sporgersi cercando
di conservare se stessi,
piegarsi al niente –
la mia parte di letto
e la tua.
 
Rimane, di noi,
rimane un luogo
freddo
 
da nessuno pensato.
 
 
 
 
 
 
Per questo niente che il niente
riapre, nel punto dove la vita
geme, muta presenza del mare,
i giorni della solitudine –
 
rondini immobili nel cielo,
innocente la mano si posa
sul viso.
 
 
 
 
 
 
E a chi resta, resta la sete e il pianto,
il giogo eterno della memoria,
l’umano niente nel farsi polvere
fuoco, sostanza stessa di dio.
 
È scesa la notte sui monti, tra le malghe
che amavi tanto. Ora attendiamo soli
il giorno, nel nascere al nuovo canto.
 
Il tuo cuore è cieli quieti e lontananza.