Speciale Daniele Mencarelli: un’intervista

Oggi, 26 aprile 2024, la redazione di Laboratori Poesia celebra il 50° genetlìaco di Daniele Mencarelli, scrittore che torna a licenziare un libro di versi a distanza di diversi anni, dopo un felice esordio in prosa. Lo speciale dedicato si articola nella recensione di Caterina Golia a Degli amanti non degli eroi (Mondadori, 2024, QUI) con alcune foto da lei scattate alla presentazione del libro presso la Mondadori di Velletri il 15 marzo 2024 (presentazione a cura di Daniele Dibennardo), nella presente intervista a cura di Fabio Barone, in una seconda intervista curata in classe da Rocío Bolaños ed effettuata da Fabio Barone che riporta le domande dei ragazzi di seconda Liceo Scientifico B. Pascal di Busto Arsizio (che in classe hanno approfondito La Casa degli Sguardi e altre opere selezionate, QUI), e infine nella tradizionale traduzione con commento di alcuni testi a cura di Rocío Bolaños in spagnolo e Andrea Carloni in inglese (QUI).

La Redazione

 
 

Fabio Barone: Qual è stata la tua prima esperienza significativa con la poesia e come questa ha influenzato il tuo percorso artistico?

Daniele Mencarelli: È stata senza dubbio la lettura di Ultima preghiera di Giorgio Caproni. Io avrò avuto 17-18 anni, ed è stata una lettura rivoluzionaria perché ha intercettato nella lingua e nel contenuto quello che per me era il desiderio di poesia. Ultima preghiera è dedicata alla madre, Annina Picchi, quindi un tema che sentivo visceralmente mio ma che non credevo appartenesse alla sfera elitaria dei pensieri dei poeti. Da ragazzino pensavo di chissà che cosa, di quale alte sfere, di quali concetti cosmici parleranno… e lì trovi uno che mette l’anima in bicicletta per andare a trovare la madre. E poi nella forma, è stato a tutti gli effetti un’immaginifica pacca sulla spalla da questo omino piccolo che era Caproni, come a dire “può esistere, esiste” questa visione della poesia che ne fa un atto aperto, arioso (per usare un aggettivo che Caproni amava), e che prova ad andare incontro al lettore e non per questo si sente profanata. Ha a cuore anche il tema della leggibilità, che è un tema che poi è stato tanto dibattuto negli ultimi anni. Quello è stato proprio uno spartiacque.

 

F.B.: Tant’è che mi fa pensare a quanto Caproni sia stato un po’ tacciato di semplicismo, nei suoi anni, di un’eccessiva semplicità che poi è realtà.

D.M.: È stato recuperato dopo. Se tu pensi al padre del ‘900 italiano che è Camillo Sbarbaro, lui ha compiuto questo errore imperdonabile di pubblicare con «La voce». Questa rivista definita di poeti moralisti era vista un po’ come oggi se tu pubblicassi il primo libro con un editore a pagamento ma di quelli proprio criminali. Ma lui l’hanno recuperato poi Montale, Caproni, Pasolini, è stato un genio assoluto.

 

F.B.: Hai mai sperimentato la censura per il contenuto delle tue opere in poesia?

D.M.: No, io ho una linea di confine. È interessante come domanda perché in quel dialogo evidentemente sperato con il lettore, c’è uno scarto, un varco, anche in letteratura, verso la pornografia, verso tutto quello che diventa eccessivo. Io ne ho avuto conferma adesso perché sto leggendo diversi libri per vari premi, in quanto si sta appunto aprendo la stagione dei premi. Ritorno un po’ quello che dicevo prima: nel rapporto con il lettore non che mi autocensuri, ma credo che anche la grande visione d’orrore, d’amore, di eros, l’autore è quello che riesce a restituirla sempre in una chiave talmente di traslata che fa vedere meglio la realtà ha totalmente traslata. Quindi questa idea in certi passaggi del rapporto descrittivo uno a uno rispetto a certe visioni non mi appartiene, non mi è mai appartenuto. Di fronte a certi errori, a certi desideri, a certi momenti dell’uomo, io penso che l’artista vero sia quello che magari dia un dettaglio per il tutto o si concentri su altro per dare meglio la scena. Non ho mai vissuto censura perché è come se dentro di me scattasse un’allerta (pensa a libri come Bambino Gesù, il libro sui bambini dell’ospedale pediatrico), un’allerta che fa dire “questa visione va detta in un modo altro, perché il rischio è appunto quello del diventare pornografici, di sfruttare l’immagine e invece di mettersi al servizio dell’immagine”.

 

F.B.: Cosa ti motiva, o cosa ti spinge, o ti ispira a continuare a scrivere poesia, vista anche l’ultima pubblicazione per Mondadori dopo anni che non tornavi alla poesia.

D.M.: Da una parte il fatto che non l’ho mai abbandonata come punto di riferimento, un corredo che a tutti gli effetti è un po’ come la casa per una lumaca. I miei esempi, quando parlo di letteratura e nelle scuole, finiscono sempre col parlare di poesia. Il mio mondo è prettamente poetico. Non nego che tanta narrativa faccio fatica a leggerla perché mi sembra molto solipsistica, molto diluita, molto nata e cresciuta soltanto per farsi vedere, tutto questo passato che ho dedicato alla poesia vive dentro di me. E poi perché riconosco alla poesia un primato tra le lingue. Quello che fa la poesia è nominare il mondo, nominare le cose, qualcosa di ineguagliabile e inarrivabile. In me ogni tanto ancora adesso, appuntate in giro, ci sono tante poesie scritte, tanti versi che poi magari diventano i grandi nuclei tematici di un capitolo di un libro. Però l’andamento anche nel lavoro è sempre quello: lavorare da poeta, lavorare sulle parole, sulle visioni.

 

F.B.: Qui entriamo proprio a gamba tesa nella domanda seguente: come la poesia si integra all’interno dei tuoi romanzi, e quindi in un respiro diverso da quello della prosa.

D.M.: È stato tutto molto naturale. Torno un attimo a La casa degli squadri, il primo romanzo. Quando mi sono ritrovato a dover mettere nero su bianco i momenti più lirici, i momenti in cui il protagonista aveva di fronte le immagini più crude o più belle, lì è la parola stessa che mi ha chiesto quello spazio, quell’andamento, quella versificazione, anche se in un contesto evidentemente più ibrido, più prosastico. Se sfogli i miei libri vedi che nei momenti appunto più lirici, verso l’alto o verso il basso, l’andamento torna a essere quasi versificatorio, c’è tanto bianco. Questa non è stata una scelta, è stata proprio una necessità perché il bianco è un elemento che dice tanto, è quell’elemento che rende plastica la parola, che scava dentro la parola, che non è mancanza di inchiostro, è aria, ossigeno, se vuoi anche abisso. Quel bianco può essere un ascensore, un razzo verso l’alto, ma può essere anche veramente una caduta verso l’abisso. Ed è bianco fondamentale per la poesia. Uno non si rende conto di quanto quello spazio sia l’elemento che quasi rende marmorea la parola. E quindi è stato un connubio, è stata una relazione che si è creata in modo abbastanza naturale. Ancora oggi mentre scrivo (io sono uno che prepara molto), mentre vivo la scena che sto scrivendo, è la scena che mi porta nel suo svolgersi naturale, a seconda della piega che prende, se è una piega più drammatica o più sentimentale. È sempre la piega della scena che mi ordina di cambiare registro, di andare verso un andamento che contenga e accolga più bianco.

È come se tu raccontassi una scena che diventa amorosa, che passa attraverso un bacio, e da quel bacio tutto è come se tutto diventasse un cambiamento formale che insegue il cambiamento quasi cardiaco dell’uomo. L’uomo tanto più è emozionato e tanto più vive a strappi, tanto più vive di fiato spezzato, di momenti che sono anche paradossalmente meno precisi, più scontornati dai sentimenti, dall’adrenalina, da tutto quello che nasce nei grandi momenti di tensione positiva, negativa, da tutti quegli elementi che diventano dominanti. Noi siamo comunque sia animali a sangue caldo, questo non lo possiamo dimenticare.

 

F.B.: L’ultima domanda riguarda sempre la tua visione della poesia, un po’ più generica: come vedi il futuro della poesia all’interno del nostro panorama culturale contemporaneo, e quali sono secondo te le sfide che i poeti di oggi devono affrontare.

D.M. L’altra settimana ero a Pistoia in una libreria molto bella a presentare, con un poeta editore che ha iniziato con me l’avventura in poesia negli anni ‘90, Gabriel Del Sarto. Lui da professore ha detto una cosa verissima, che anche io dico in tutte le scuole: perché, nell’approccio alla letteratura, non provare un po’ a invertire l’ordine degli addendi? Nel senso che per me, per ricominciare una nuova stagione di relazione tra uomo e letteratura si dovrebbe partire dalle scuole con questa inversione. Che è partire dalla contemporaneità, o dalla contemporaneità ovviamente storicizzata (parliamo del ‘900, fino agli anni ‘70). Partiamo da oggi per andare indietro, non il contrario, non partiamo da una lingua che se presa con questa scansione, dal passato remotissimo ad oggi, non può che apparire morta. Questo è già un segnale pratico. Poi l’altro grande elemento è che la letteratura è una lingua che ha la stessa vitalità e natura di una fiamma, la fiamma si passa solo se è accesa. Riuscire a trovare medium, professori, persone che l’abbiano veramente a cuore e che la vivano in modo acceso. Questo capovolgimento aiuterebbe anche i professori perché se parti da un libro che per te è stato un libro della tua adolescenza, sarà più facile parlarne in maniera appassionata. Nessuno vuol togliere importanti ai classici, nessuno vuole distruggere nulla.

Però partire da una letteratura che, anche come lingua, sia contemporanea, potrebbe essere la prima grande rivoluzione. E poi credo nell’andamento ciclico delle discipline, degli eventi. È ovvio che se pensi all’ebanista piuttosto che a chi ferrava i cavalli, ovvio che poi lo scorrere del progresso rende tante attività artigianali e artistiche obsolete. Questo non può accadere per la poesia perché è una lingua che ha che fare in modo unico con l’umano. Ma dobbiamo fare attenzione a non renderla anacronistica e obsoleta. Nel mio piccolo, con quest’ultimo libro che sto portando a scuola, cerco di far capire di non parlare di poesia, ma leggerla. C’è un detto che non so se sia solo romano: spesso quando si è in tre si gioca “a briscola con il morto” si dice. Spesso vedo incontri, anche a scuola, dove il programma è parlare di poesia e in assenza della lettura. No, sentiamola nelle orecchie, stabiliamo che esiste una poesia che vuole affermare i valori che tutti hanno a cuore, e poi si inizia a parlare di poesia. Queste sono piccole grandi rivoluzioni che messe tutti assieme, secondo me potranno con il tempo dare nuovo lustro alla poesia.

 
 
La foto di copertina è di Guido Fuà.
Fonte: https://www.vanityfair.it/show/libri/2020/07/02/daniele-mencarelli-intervista-premio-strega-2020-tutto-chiede-salvezza