Oggi, 26 aprile 2024, la redazione di Laboratori Poesia celebra il 50° genetlìaco di Daniele Mencarelli, scrittore che torna a licenziare un libro di versi a distanza di diversi anni, dopo un felice esordio in prosa. Lo speciale dedicato si articola nella recensione di Caterina Golia a Degli amanti non degli eroi (Mondadori, 2024, QUI) con alcune foto da lei scattate alla presentazione del libro presso la Mondadori di Velletri il 15 marzo 2024 (presentazione a cura di Daniele Dibennardo), in un’intervista a cura di Fabio Barone (QUI), in questa seconda intervista curata in classe da Rocío Bolaños ed effettuata da Fabio Barone che riporta le domande dei ragazzi di seconda Liceo Scientifico B. Pascal di Busto Arsizio (che in classe hanno approfondito La Casa degli Sguardi e altre opere selezionate), e infine nella tradizionale traduzione con commento di alcuni testi a cura di Rocío Bolaños in spagnolo e Andrea Carloni in inglese (QUI).
La Redazione
Nel corso del programma scolastico presso il Liceo Scientifico B. Pascal di Busto Arsizio, i ragazzi di seconda liceo sono stati avvicinati all’autore attraverso la lettura di opere selezionate e di La casa degli sguardi, questo ha dato modo di stimolare un dibattito vivace in classe, incoraggiando gli studenti a confrontare le sfumature dei testi e a esplorare i collegamenti tra le vicende narrate e il contesto storico-culturale. Ci siamo soffermati sulle analogie con la vicenda dell’Innominato di Alessandro Manzoni, questo per evidenziare l’importanza dell’intreccio tra il presente e la storia. Mossi dalla genuina curiosità di approfondire le tematiche affrontate e di comprendere meglio il processo creativo, i ragazzi hanno accolto l’opportunità di interagire direttamente con l’autore grazie a Laboratori Poesia. La loro determinazione nel voler porre domande, cariche di fervore intellettuale, ammirazione e interesse, testimonia il legame profondo che hanno instaurato con la lettura e l’autore stesso.
Rocío Bolaños
Per tirarsi su dalle difficoltà bisogna avere uno scopo? Basta solo questo per andare avanti?
Questa è una bella domanda. Io non lo chiamo scopo ma talento. Mettersi dai 15-16 anni alla ricerca del proprio talento può essere una cosa importante, nel senso che già questo rende quell’età molto difficile, la rende attiva. Non ti fa precipitare in quel posto che è quello più profondo, terribile per l’uomo che è l’assenza di desideri, che è apatia, ignavia. Quindi mettersi alla ricerca del proprio talento e quindi del proprio scopo, è già un modo per investire la propria adolescenza in quello che si ama fare, di quello che un individuo poi magari è portato a fare. Sono discorsi che faccio a mio figlio che ha 17 anni: che cosa desideri, cosa ti piace fare? A parte quello che ti chiede l’istituzione familiare, il mondo, la scuola, prova a cercare qualcosa che piace fare a te. Questo secondo me è già un contributo importante in una fase della vita che comunque è quella più difficile. Questo lo dico anche a scuola: io non tornerei mai indietro, essere giovani è molto difficile.
In relazione a Tutto chiede salvezza, il protagonista del romanzo all’inizio vive deludendo i suoi genitori. Come facevi a convivere conoscendo questa delusione?
Una persona che purtroppo vive un periodo di crisi, o comunque un momento di grande autodistruzione, che soffre di sensi di colpa in maniera spesso insopportabile, che diventa poi anche profondamente egoista, che non va al di là del proprio dolore. Questa è una caratteristica che rimane anche a quegli adulti che vivono forme interiori di grandi conflittualità. Si rimane involontariamente egoisti perché innanzitutto c’è questa lama che rende la vita più difficile, che spesso ti rende meno disponibile agli altri. Io ho avuto l’esperienza del Bambin Gesù, oggi dico “soprattutto poeticamente”, è stata la grande estroversione rispetto alla scrittura. Quindi scrivere più di altri che di me. Però l’uomo che soffre, in termini pratici, spesso in termini anche psicologici, è l’uomo che chiede attenzione più che riuscire a dare attenzione.
Mi sono rivista nei tuoi problemi con l’alcool, che per me sono i problemi con il cibo. Come hai fatto a zittire quelle voci che ti dicevano nella testa di bere, e che a me dicono di non mangiare? Hai mai avvertito sensi di colpa quando le hai ignorate?
I disturbi alimentari sono tremendi. Girando tante scuole vedo che sono diventate una piaga. Esistono tutta una serie di parole che vengono in qualche maniera oggi viste di cattivo occhio, proprio ormai esiliate. Una di queste parole è disciplina. Io in fondo dall’ultima dipendenza che è il tabagismo, che è comunque una dipendenza che tanti non riescono a spezzare per una vita intera, ho capito che quello che serve a un uomo che tende ad avere un rapporto squilibrato con i consumi è la disciplina, cioè cercando sempre più trovare con sé stesso, dentro sé stesso, una linea di demarcazione che lo porti a trovare una modalità appunto che regoli sempre di più questa incapacità di gestione. Attraverso una disciplina nel dialogo, nell’ascolto, non disciplina nella censura. Non sono un medico ed evidentemente dico una cosa che riguarda la mia esperienza. Il rapporto squilibrato è con i consumi e con i culti, perché fra culti e consumi non vedo grande differenza. Che poi uno possa avere il culto dello shopping, oppure il culto del proprio aspetto fisico, oppure della propria forma fisica, oppure un consumo o non consumo alimentare come nel caso di questa ragazza, a me sembra siano tutte forme che rimandano a forme cultuali. Noi stabiliamo dentro noi stessi questa forma, questa forma distorta di fede, un modo per evitare o per punirci o per evitare comunque di parlare con noi veramente. Perché poi l’idolatria è sempre una via di fuga o dal guardare noi stessi o dalla pratica del vero Dio, che per qualche che mi riguarda è una pratica che io sto ancora cercando. Io mi definisco un aspirante credente. Credo che chi ha questa forma di sregolatezza, che sia col cibo o altro, debba provare a trovare una disciplina attraverso il dialogo con sé stesso. Io non sono quello che non mangio, io non sono quello che uso come sostanze, io non sono quello che compro dentro un negozio, io non sono la mia carriera, cioè tutte quelle forme che però ti mettono al centro. Il disturbo alimentare come le dipendenze, come la ludopatia, sono effetti di una causa. Qual è la causa? È necessario andare alla ricerca della causa un po’ più profonda e che magari riguarda il rapporto noi stessi. Prima parlavo della gioventù: io fino ai 27 anni non avevo quello che sto dicendo adesso, quindi questa disponibilità a dialogare con me stesso, che è una disponibilità che non è mai finita perché ancora oggi passo periodi di grande difficoltà. Il dialogo con sé stessi, attenzione, è una pratica che non finisce mai, anzi che uno rischia di perdere pure da adulto.
Come hai fatto a trovare la forza di andare avanti di fronte a una morte che hai vissuto come ingiusta, quale è quella del bambino in ospedale (in un episodio de La casa degli sguardi). Come hai fatto a continuare a recarti in ospedale dopo aver vissuto quella esperienza?
L’ospedale pediatrico ha lanciato dal primo giorno la sfida rispetto a quello che pensavo di conoscere della realtà. Perché dalla prima visione, il mio primo giorno in ospedale (lì il romanzo segue in maniera veramente pedissequa quello che ho vissuto), la prima mattina con la divisa ancora nuova, ancora mai indossata, per andare verso gli spogliatoi mi fermai in questa casetta di cui non sapevo nell’esistenza, della ragion d’essere, e mi ritrovai di fronte a questa bambina dentro questa cassa bianca. È da lì che è esplosa dentro di me questa irragionevole, se uno pensa a mente fredda rispetto a quello che avevo vissuto fino a quel momento, voglia di rimanere. Perché se a me avessero detto fino al giorno prima, per come soffrivo e bevevo, per quello che avevo combinato, “tu di fronte a una bambina rimarrai, deciderai di rimanere” avrei detto “ma voi siete pazzi, io non ce la farei mai. È il grande imprevisto, è la portata e la profondità della realtà e degli imprevisti che offre, che sono imprevedibili a decidere poi gli eventi che tu sopporterai o gli eventi da cui tu fuggirai. Prima uno può immaginarlo, ma poi solo quando stai lì sai se hai la forza e il coraggio di rimanere oppure di dire no. Io tante altre volte questo coraggio non l’ho avuto, mi viene in mente mio figlio che, quando si è fatto male dentro casa, non ho avuto il coraggio di rimanere. Fu mia moglie a tamponargli la ferita. Quindi non sempre l’uomo è disponibile a quello che vede che vive, lo scopre al momento. Magari fosse sempre tutto prevedibile, o magari sarebbe pure una gran rottura di scatole.
Da quella bambina, dalle tante visioni dell’ospedale, ormai sono cose che fanno parte del mio cervello. Adesso va di moda dire che il cervello dell’uomo e via dicendo, ma le neuroscienze scoprono l’acqua calda. È ovvio che un uomo che magari va in guerra, gli scoppia una bomba accanto e dilania un ragazzo con cui stava parlando un secondo prima, è ovvio che quell’esperienza, che si chiama esperienza non ha caso, lo toccherà a tal punto da provocargli nel cervello una scarica di neurotrasmettitori. Il cervello è un organo un po’ come il fegato, parlo solo di cervello come organo, ed è come avere scarica di neurotrasmettitori tali che nel cervello rimane come una cicatrice. Quello che rimane di più a vedere, forse adesso perché sono genitore, sono certe disperazioni, certe urla, veramente indimenticabili.
Nel rapporto con tua madre non ha influito quell’atto audace di portarti di fronte al ponte?
Questa è una domanda bellissima perché all’inizio de La casa degli sguardi mia madre, all’ennesimo mio ritorno totalmente alterato, totalmente devastato, invece di riportarmi a casa mi prese per mano e mi portò all’inizio sul ponte di Ariccia che è alto 72 metri, e mi disse “se devi fare male a qualcuno allora buttiamoci”. È interessante perché dice una cosa che per me è fondamentale. Ritorno all’incontro con Gabriel Del Sarto: lui come introduzione ha letto una pagina di un saggio di David Maria Turoldo. E Turoldo in questa pagina che oggi a leggerla sembra quasi eversiva, (io ho citato Primo Levi in un’altra pagina che ha scritto in un altro saggio), dice che lo scrittore è quello che nella grandezza che sente di dover testimoniare dell’amore, dell’orrore, pensa Levi con Auschwitz, dice “io ho anche l’obbligo senza tradirmi e tradire nulla, di costruire una lingua che vada incontro al lettore. E oggi queste pagine sembrano quasi eversive, come sembra eversivo un fatto: una volta che uno scrittore congeda un testo, lo da alle stampe, a partire dal titolo, la copertina, la dedica, l’esergo, i ringraziamenti finali, il testo che sia poetico o narrativo o saggistico, poi la sua lingua è fatta per essere vissuta ed è fatta grazie all’immaginario del lettore di sottotesti, chiavi di lettura, a cui lo scrittore non aveva pensato, e che hanno una validità assolutamente (a meno che non siano letture totalmente sbagliate, straniere rispetto al testo).
Durante la presentazione del mio primo romanzo ci fu una domanda: “quando è iniziato il percorso di rinascita di Daniele dentro il Bambin Gesù”. L’ipotesi dei ragazzi in sala fu l’incontro con la suora. Io risposi no, in realtà Daniele ha iniziato il suo percorso di rinascita da quando mette piede in ospedale, dalla visione della prima bambina, più un giorno di lavoro, il dire a sé stesso “resisto”. Alla fine dell’incontro si avvicina una ragazza che in maniera molto timida mi dice “io la penso in un altro modo”. Lei mi racconta questa visione che diventa immediatamente la mia, perché lei mi dice “in fondo sua madre, invece di riportarla nel proprio la casa, perché la casa diventa proprio come un grembo, un luogo meraviglioso ma anche chiuso perché in certo punto ti espelle” (la casa dico sempre può essere il grande focolare oppure una gabbia), “per me nel ripartorirti, nel portarti dalla casa, tua madre ti fatto di rinascere”. E sinceramente, quando l’ho ascoltata (io stimo molto le nuove generazioni perché hanno una capacità di linguaggio, hanno mille cose meravigliose che noi alla loro età non avevamo come generazione), mi sono sentito di dargli ragione perché è vero. Mia madre compì un gesto rivoluzionario, invece di riportarmi dentro casa, a mettermi a letto, darmi magari un farmaco, mia madre mi prende, mi riporta fuori, dalla casa che è utero. Mi ripartorisce nella realtà, nel luogo dove l’uomo trova salvezza da sé, da quella malattia più evidentemente interiore, quella autodistruttiva.
Fonte della foto in copertina:
https://bct.comune.torino.it/gli-approfondimenti-del-progetto-leggermente/daniele-mencarelli-leggermente-4-marzo-2022