Speciale Benito Sablone: la pace di Colui che tace


Ben venti sono le raccolte di poesia di Benito Sablone, a testimonianza di una vocazione spontanea e d’un inconsumabile fuoco di cui si ha prova solo quando egli, ogni volta combattendo in nome di oscure forze, nel prendere in mano la penna, prova a fermare sulla carta l’assoluto di una vicenda, riuscendo a catturare un ritaglio del mondo in una domanda, in un assillo o in una paesaggistica tranquillità dell’essere, sorprendente spreco di un pezzo dell’invisibile, di un elemento dell’ineffabile, di un bordo dell’altrove, misura stretta in cui si mostra lo scivolare della lingua nell’alambicco della verità, allorché si fa essenza, vicenda dell’avventura del poetico (come potrebbe essere del visivo, dell’aptico, dell’olfattivo, insomma della pratica dei sensi allorché si incarna e sublima nell’azzardo dell’ideale, del trascendente) ed ogni parola perciò si fa strappo, medium, orma di un’ulteriorità.

Il poeta, nato il 19 settembre 1935 (motivo per cui oggi lo omaggiamo con questo speciale), di recente venuto a mancare nel 2023, assegna alla poesia un valore di verità che coincide con l’incarnazione del mondo nel medium dell’uomo; se il mondo attraversa l’uomo è per farsi creato, parola, traccia di un passaggio, sublimazione. L’uomo distilla il mondo e ne è a sua volta distillato, ecco il principio di Sablone, venuto in terra a mostrare la verità del poetico, solo da pochi eletti concepita: da una schiera di angeli composta di presenze quali quelle di Rilke, Holderlin, Rebora, Marino, Gongora, (e Alessandro Guidi, di cui Sablone si professava reincarnazione), Machado, Alberti, che si sono interrogate palpitanti di un vero che le ricolmava rendendole barocche ma sempre ispirate, per una possessione a volte drammatica e oscura e tragica, talaltra ebbra e panica, dominata da una sconvolgente retorica del mito dell’essere.

Il soggetto è sempre chiamato a pronunciarsi, evocato da febbri, da ingorghi dell’animo incitati a risalire verso la superficie, verso un Aprirsi della Domanda sul Mistero: «Non so di quale voce umana / ascolto la diana – quale lancia / dal cielo mi trapassa. / Un senso mi conduce / nel marasma / nel flusso senza compimento / dove si sfrangia la ragione // La promessa è solo tradimento? / La Parola / un’ape assidua / dalle ceneri risorta? / O la corrotta specie / in sé conserva le sue essenze / dell’incorruttibile prima adolescenza? // Ogni linfa si asciuga sulla scorza / La più fluida trasparenza / all’apparente morte / si congela in forza».

Chi è quell’essere che prende la parola nell’uomo e si mostra, insolente, sprezzante, sventato, traditore, ingannatore, imprevedibile aggressore: «Imprevedibile aggressore / dalla siepe e dall’angolo / colpisce senza rossore / – la sua voce implacabile/ sobilla il torpore alla battaglia / sfionda dalle stelle / dalle crepe del muro / origlia nel bicchiere / dove bevi – ronza tra la paglia / miete col fuoco / dona per avere». Sablone, uno dei più grandi poeti della sua generazione, nasconde ctonie verità, abissi profondi che per un istante tornano a galla, accecanti di nero, agghiaccianti ma anche liberanti, per donare le ali con cui spiccare il volo verso il Creatore che dietro l’umana labile ombra si nasconde. «Splende la fronte / di luci e di vittorie / Eroe di giorno e di notte / un solo giorno temo / una sola notte // L’Angelo muto / fuggito alle mie spalle / lascia le sue scorie / brillanti / e più non cuce / la vita con la morte». Tutta la poesia di Sablone è una dichiarazione d’amore al dio sconosciuto: «Come un cieco con le mani / decifro le parole / scritte nei secoli / e leggo sulle pietre / i segni della pioggia / Ciò che mi parla è il mondo / questo diadema / che pesa sulla fronte / del dio sconosciuto».

Massimo Pamio

 
 
 
 
Forse si apre giù
 
Forse si apre giù
nelle modeste curve
un nuovo angolo di mondo
silenzioso
             Lungo i rami
 
un lento discorso tra le cose
è portato tra gli ulivi
A convincere i capretti
e l’erba sciutta della mietitura
basta l’incenso della terra
screpolata
che assottiglia il frutto
e spreme
il miele delle spighe
 
 
 
 
 
 
Lungo la scarpata
 
Lungo la scarpata
– lepre di primavera –
insegue la libertà
Per un fucile un sasso
forse mi perderò
Questo sarà domani
– intanto inseguo il vento
e per l’onda di uno sparo
domani non ci sarò
 
 
 
 
 
 

Nella zona che non mi riconosce
 
Nella zona che non mi riconosce
bisbiglia la tua voce
– è un brivido sottile
una canzone
mai scritta da nessuno
Mentre scavo
sento dentro l’ossa
la vita che non c’è
– ma se si vuole
ecco le sue radici
e ride ride insieme a me
 
(da Ciò che non accade, Pescara, Tracce, 2006)