Speciale Alberto Bertoni: un’intervista

In occasione del 69° compleanno del poeta Alberto Bertoni che cade sabato 23 marzo la Redazione di Laboratori Poesia lo omaggia con uno Speciale dedicato comprendente un’intervista esclusiva della redattrice Caterina Golia al poeta modenese, tra i maggiori autori in versi del nostro tempo, e una recensione del caporedattore Federico Migliorati (QUI) al volume Culo di tua mamma. (Autobestiario, 2013-2022) apparso nel 2023 per Samuele Editore-Pordenonelegge. Insieme all’Editore Alessandro Canzian, al Comitato Editoriale e all’intera Redazione anche Gian Mario Villalta si associa allo spirito augurale verso Bertoni per antica e presente amicizia.

 
 

Caterina Golia: La sua poetica si concentra soprattutto su alcuni temi chiave: la memoria, il tempo in generale, il divario presenza/assenza. Cito due sue raccolte di qualche anno fa, in cui ha sviscerato questi temi in chiave drammatica pescando nel suo passato: Il letto vuoto e Ricordi di Alzheimer. Crede di aver già detto tutto? Oppure rimane qualcosa, nel passato, che ritiene ancora impossibile da convertire in versi?

Alberto Bertoni: La mia poesia è prima di tutto una poesia dell’esperienza. Vale a dire che io parlo solo di fatti, percezioni, sensazioni, accadimenti, dialoghi realmente accaduti. Magari mi colpiscono un dettaglio, un giro di frase, uno sguardo, un gesto apparentemente insignificanti da cui traggo spunto. Non mi è mai capitato di decidere a tavolino o perché qualcuno me l’ha commissionato il tema o il punto di vista di una poesia. Il “cosa dire” nasce in totale coincidenza con il “come dirlo”: e la radice di tutto, non credendo io in alcuna illuminazione divina o trascendente, nasce nel mondo dell’inconscio, dell’involontario, dell’inconsapevole. Poi, le costanti che lei menziona sono vere, le riconosco, tuttavia posso riconoscerle soltanto a posteriori, come constatazione e come frutto di una lettura altrui, di uno sguardo esterno. Dunque, no, non credo di avere già detto tutto, ma non ho proprio idea di cosa dirò poeticamente in futuro e nemmeno sono certo che scriverò ancora una poesia. La poesia si affaccia alla mente e poi all’atto di scrittura che registra (scrive) le prime parole che assumono forma linguistica e che chiedono di non esser lasciate cadere nel nulla in modo totalmente involontario e incontrollabile. Proprio ieri, 16 marzo 2024, ho finito un testo dedicato a mio padre Gilberto (morto nel gennaio 2006), che sarebbe stato bene dentro i Ricordi di Alzheimer. Ma quello è un libro finito (un mese fa ne ho licenziato la quarta e ultima edizione) e non ho la minima intenzione di riaprirlo. Dunque, la nuova poesia di Alzheimer entrerà in un altro progetto, inattesa così com’è venuta.

 

C.G.: In un’intervista a lei fatta per la Gazzetta di Modena nella seconda metà del gennaio 2024, riguardante il suo ruolo di docente universitario all’estero, lei ha detto che “il problema è di convincere i ragazzi a leggere”. Da tempo, infatti, emerge che tutti scrivono poesie, ma in pochissimi le leggono. Qual è il problema che emerge da questa pratica?

A.B.: Nel contesto storico-sociale di oggi, la poesia è più importante leggerla che scriverla. Più importante ancora sarebbe imparare a leggerla, impresa difficilissima perfino per gli addetti ai lavori: infatti, se ognuno di noi conducesse un vero esame di coscienza, si accorgerebbe che nella suddivisione attuale del tempo quotidiano l’occasione per una lettura piena e concentrata su tutte le implicazioni che il leggere davvero poesia comporta risulta sempre più ristretta e difficile. La lettura infatti è spesso più ostacolata che favorita dal contesto nel quale ci si trova anche professionalmente ad agire: a maggior ragione se si svolge il mestiere di insegnante.

Leggere davvero una poesia (meglio precisare: una grande poesia) implica sempre un atto di riformulazione interiore e dunque di rilettura: e sollecita l’affinamento di una dote specifica (da applicare al linguaggio) di orecchio musicale e di competenza espressiva, retorica, metrica. La poesia è infatti un atto linguistico nel quale al significato referenziale degli enunciati si somma tutta una serie di strategie espressive che coinvolgono l’ordine delle parole, le strutture allitterative e fonosimboliche, la dislocazione degli accenti lungo il filo del discorso, gli effetti di parallelismo grafico e sonoro (rime, assonanze, consonanze), la suddivisione metrica che – in tempi di verso libero – tende a organizzarsi secondo un’accettabile suddivisione del recitativo, la qualità spiazzante dei cosiddetti tropi, che si danno quando il linguaggio sostituisce i termini propri con termini che provengono da campi semantici diversi rispetto a quelli che richiederebbe una logica consequenziale: metalessi, metonimie, sineddochi, soprattutto metafore.

L’effetto di queste energie aggiuntive rispetto al semplice “contenuto” del testo poetico (e letterario in genere) e alla sua organizzazione tematica hanno il fine di potenziare la parte emotiva, suggestiva e infine immaginativa propria del messaggio poetico. Lo dice già Leopardi, meglio di ogni altro, quando nell’Infinito elenca una serie di percezioni sensoriali, intessute di “spazi”, “silenzi”, “quiete”, concludendo “io nel pensier mi fingo”: in questa formula, risiede l’essenza stessa della compiuta ricezione poetica, affidata al lavoro di ri-creazione compiuto dall’immaginazione individuale, esperienza somma di piacere, di condivisione e di trasformazione dell’emozione sensoriale in conoscenza, per una congiunzione finalmente compiuta di corpo e pensiero. Leggere un testo poetico, dunque, equivale ad eseguire una partitura musicale: e tutti noi, quando assistiamo a un concerto, ci accorgiamo della totale concentrazione, dell’intensissimo trasporto fisico non meno che mentale, della fatica cui l’esecutore è chiamato a sottoporsi. Leggere davvero, con tutti se stessi, è qualcosa di molto simile: ci si rende conto di quale privilegio godiamo, nel momento in cui “prestiamo” la nostra voce, fisica e interiore, alle straordinarie persone che hanno composto quel testo che noi riesumiamo dal silenzio, col nostro atto di lettura?

Ma non solo: la poesia vera ha sempre una mira più o meno nascosta di conoscenza e di trascendenza, non è mai mera emozione. Anzi, si potrebbe parafrasare Rilke, affermando che la poesia è una colata d’amore che precipita a fecondare quell’insieme di enigmi che coincide con la nostra interiorità più autentica, se vogliamo più inconscia, quella – vale a dire – mai confessata neanche a noi stessi, gremita com’è di pietre d’inciampo, contraddizioni, abissi o sublimi declinati al negativo. Il leggere, in particolare, è l’antidoto migliore che io conosco (e che ogni giorno sperimento in dosi omeopatiche) contro narcisismo e superficialità. Al punto che, caso mai diventassi ministro dell’Istruzione, la mia riforma imporrebbe il ripristino di tutte quelle tecniche necessarie per migliorare la lettura: dettati, riassunti orali e scritti, parafrasi, letture ad alta voce innanzi tutto poesie a memoria (soprattutto novecentesche, va da sé: al bando gli arcaismi inutili!) dalle elementari all’esame di maturità…

 

C.G.: Gli animali sono soggetti molto presenti nella sua poesia: gatte, topi, cavalli, passeri e piccioni. Spesso li introduce in una scena familiare, quotidiana o di dramma: perché la loro presenza risulta così importante?

A.B.: Da molto tempo avevo voglia di comporre un Bestiario, includendovi qualche poesia del passato, qualche inedito (che sapevo di conservare in un certo comparto segreto del cassetto cui ho fatto cenno prima) e qualche traduzione. La mia via maestra, in questa chiave, è stata il più delle volte quella di un’umanizzazione più o meno esplicita delle proprietà animali e di una esposizione più o meno parodica di vizi e virtù del genere umano, proiettata su una serie di comportamenti animaleschi evidentemente permeati da peculiarità caratteriali e psicologiche di per sé umane. Rileggendo alcune mie poesie del passato più recente insieme con quel blocco di una trentina di inediti che erano andati a rintanarsi nel cassetto segreto di cui sopra, mi sono accorto che – al contrario – gli animali che facevano sempre più spesso capolino nella mia poesia erano portatori della procedura opposta: e incarnavano quel processo di animalizzazione dell’umano che mi sembra sempre più diffuso entro la nostra civiltà di massa, meccanizzata e informatizzata, ma anche sempre più spietata, belligerante e “vuota” di spiritualità e di comunità. Faccio un esempio concreto:

Siamo ben vivi
mentre ci fissiamo
immobili da qualche istante
la mia gatta e me
 
Siamo ben vivi e anche
pronti a scattare
l’uno verso l’altra

Il gatto è un animale domestico fino a un certo punto, non è che lo si possa assoggettare alle regole di una pacifica coesistenza piccolo-borghese entro una realtà condominiale. Dall’inizio del nuovo secolo ho avuto tre gatte, la prima era già anziana quando ho cominciato a conviverci, la terza ha cinque anni e mezzo ed è la protagonista del passo poetico ripreso qui: un passo che mi è caro, perché riprende un attimo di sospensione che mi piace equiparare al surplace nel quale si impegnavano – quand’ero bambino – i velocisti su pista, per acquisire una posizione di vantaggio tattico nei confronti dell’avversario che aveva il vantaggio di poter scattare da dietro, all’improvviso. Ovviamente, il retroscena del surplace verificatosi fra la mia gatta e me la sera che mi ha ispirato la poesia è consistito in un mio piccolo gesto sospeso fra carezza e buffetto al quale lei ha risposto con una fulminea zampata, però ad unghie chiuse: doveva ancora cenare. Non c’è bisogno che aggiunga che anche in futuro potrò convivere solo con felini di sesso femminile, proprio per questa imprevedibilità e per la punta di spirito vendicativo che nella gatta esplode sempre dopo una mia vacanza, temperate da una considerazione istintiva e intelligente per lo stato delle cose e i rapporti di potere domestico.

 

C.G.: La sua poesia è profondamente introspettiva, ma ha il potere che aveva la figura del Dante personaggio nella Commedia: rappresentare se stesso e al tempo stesso l’intera umanità. Quale crede sia la differenza tra il desiderio introspettivo e quello narcisistico?

A.B.: Capita una mattina di alzarsi e dire: “Oggi può essere un giorno di poesia”, che vale in realtà un “oggi forse scrivo”, perché c’è un movimento che sta coagulandosi e che ha bisogno di essere disteso in una serie di frasi versificate, ritmate, plasmate dentro un crogiuolo metrico. Sono giornate in cui la prima parola che mi viene in mente appena mi sveglio è una parola che fluisce in modo anche musicale e sono le giornate in cui appunto a bassa voce mi dico: “Oggi potrei scrivere una poesia”. Bisogna anche “aver qualcosa da dire”, però, e spesso invece, anche nei giorni in cui il pensiero fluisce in forma musicale, accade che non si disponga di un oggetto, di un evento, di un argomento (comunque derivato da un aneddoto esperienziale), di una piegatura particolare del reale, di un Tu destinatario/a del discorso o di un paesaggio (non importa se interiore o esteriore) da modellare, da esprimere. E soprattutto accade che non sia presente un interlocutore davanti agli occhi del cuore e della mente a cui urga di comunicare qualcosa che non sia già stato detto così. In questo caso “negativo”, la giornata che sembrava possibile per comporre una poesia finisce in sé e quel fluire abbastanza armonioso della lingua nella mente o sulla punta delle labbra magari viene fatto confluire in qualche conversazione più o meno casuale, oppure in qualche telefonata, senza che venga nemmeno abbozzato un inizio di poesia. Mentre invece un artista figurativo o un narratore in quella stessa circostanza avrebbero comunque tracciato qualche segno o limato qualche paragrafo chiamandoli magari ad assolvere una funzione decorativa o ad essere integrati in un progetto a venire…

Rimane poi vero che in poesia ho cercato e cerco tuttora di dar forma a quello che è rimasto incompiuto, oscuro, contraddittorio e sepolto nei territori molto accidentati, pietrosi, spiraliformi del mio inconscio o anche della mia emotività più oscura e razionalmente inspiegabile: in una parola, l’esatto contrario di un’operazione narcisistica.

La poesia, infatti, è in primo luogo una forma di igiene linguistica, vale a dire un atto di selezione e di salute che si compie attraverso la lingua e che sulla lingua si rifrange, in positivo. Ma la poesia è un atto d’igiene linguistica anche perché richiede una parola precisa due volte: precisa da un punto di vista semantico perché in genere esistono una parola o un giro d’espressione “dominanti” in cui si concentra la dimensione profonda del tuo dire; ma precisa anche da un punto di vista ritmico-musicale. In una lingua sillabico-accentuativa come l’italiano, la musica nelle parole si ottiene attraverso l’organizzazione e la distribuzione degli accenti nel verso, nonché attraverso il lavoro del significante (l’involucro sonoro e/o iconico delle parole, la loro endiadi di vocalità/letteralità) e le diverse, molteplici strategie formali del testo poetico, per cui la parola poetica produce una cooperazione e un’osmosi fra il significato logico degli enunciati e il ritmo, i timbri, i suoni delle lettere che compongono le varie parole. Quindi quella della poesia è una parola esatta due volte: da un punto di vista argomentativo-tematico e da un punto di vista ritmico-musicale. Cogliere questa perfezione su entrambi i piani, facendoli interagire creativamente (non di rado, attraverso un rapporto contrastivo), appartiene all’artigianato del grande poeta (quello che il narcisismo sa bene come soffocarlo nella culla), anzi è ciò che distingue il grande poeta dal semplice estensore di versi.

 
 
Foto di Copertina di Dino Ignani