Silvia Rosa

Bozza automatica 41

 

Michele Paoletti intervista Silvia Rosa

 

 

In questi testi Silvia Rosa ci parla di un dolore vivo, presente come le nuvole premurose che la seguono in corteo, come una reliquia, qualcosa che rimane piantato nel profondo mentre, nonostante tutto, la vita riprende e torna la voce. Il sole si frantuma, il mondo e le cose intorno reagiscono con la solita indifferenza ma un mondo finisce lasciando tracce fatte di marmo e di perla. Unica certezza è lo scorrere dei giorni di paura in paura, raccogliendo frammenti di ciò che è stato e lasciar germogliare un piccolo bosco / d’inverno […] dentro le vertebre e in bocca. Anche i desideri si sono esauriti, solo la certezza di un ritorno, un abbraccio futuro che ci mantiene in vita nel dolore, un nome pronunciato in segreto che riallaccia i fili con un passato in cui ogni sguardo era limpido, ancora / non conosceva la fine.

 

 

In questi testi l’immagine della nuvola è sempre legata ad un passato felice.

 

In effetti, le nuvole mi fanno pensare a momenti di gioia, alle piccole meravigliose epifanie dell’infanzia, quando mi dilettavo a trovare nella loro forma cangiante immagini conosciute, che attraversavano in mille metamorfosi il cielo. Era un gioco segreto, che all’epoca condividevo solamente con un bambino più piccolo di me, al quale ero molto affezionata, il mio vicino di casa. Abitavamo all’ultimo piano di un palazzone di periferia, i nostri balconi erano adiacenti, il quartiere di un grigiore mortifero, e non c’era nessun rifugio sicuro nelle voci che ci richiamavano all’interno dei nostri appartamenti asfittici, avevamo in comune storie difficili e una serenità sbeccata che ci faceva sentire minuscoli. Ma quel gioco, quel nostro gioco, era una pausa da tutto e da tutti, una sorta di ricompensa che ci donava il cielo per riscattare almeno in parte i nostri anni teneri, schiacciati da troppe preoccupazioni. Facevamo a gara a chi scovava le forme più originali ed era tutto un convulso elenco, sciorinato con eccitazione, che passava dai nomi di cose agli animali alle persone seguendo la mutevolezza del vento. Questo gioco era però anche una potente metafora di come tutto si trasformi di continuo, di come anche i volti più familiari possano all’improvviso diventare sconosciuti, era di una malinconia struggente l’estremo saluto a una nube che si congedava smagliata e anonima, un esercizio che preludeva in un certo senso alla fine della nostra infanzia, non solo per via dell’età anagrafica che avanzava svelta, ma anche e soprattutto per il nostro sguardo macchiato sempre più da ombre e buio. Dunque le nuvole per me sono un simbolo, bianchissime e irraggiungibili, sono l’incarnazione stessa della necessità di trasformazione a cui ci costringe l’esistenza, e anche il filo di cotone morbido che ci tiene legati al nostro esordio nel mondo, a quel cielo popolato di presenze benevole che ci salutano mute, prima che la realtà irrompa e una crepa sottile si faccia strada fino al cuore, per schiuderlo in mille pezzi.

 

 

La vita ci costringe spesso a sopravvivere al dolore, a convivere con esso. E la poesia?

 

La poesia è per me il luogo della cura, in cui narrare e ridefinire quel dolore, o qualsiasi altro sentimento, in cui provare a mettere insieme tutti gli elementi della realtà creando una composizione inedita, una nuova prospettiva, una differente interpretazione degli stessi, – a partire dal proprio personale punto di vista – un mondo distinto che non è mera evasione, ma capovolgimento salvifico e illuminante. La poesia è anche il luogo della memoria e dell’incontro, in cui le storie così riscritte e narrate sono consegnate allo sguardo di chi le legge e decide se farle proprie o meno, identificandosi in esse, prestando loro una voce altra che le rinnovi e le tenga in vita. Quindi,nel momento in cui si scrive poesia e si mette nero su bianco qualcosa, ecco che quel qualcosa non è fissato immobile sulla carta, non resta identico a se stesso, non inchioda il sentire anzi lo libera, perché tutto in poesia assume un’esistenza autonoma, misteriosa, e si mischia alle infinite declinazioni del dire e del dirsi, diventa una narrazione corale, condivisa, universale. La poesia non è fuga dal dolore, dalla realtà, dal mondo, è piuttosto una modalità di abitarli, di imparare a conoscerli, di nominarli, di trasformarli, è la disciplina della parola che aiuta a non soccombere dentro certi feroci silenzi, che divorando lingua e occhi lasciano senza fiato e senza scorci d’orizzonte, inchiodati per sempre alla propria fine, nonostante lo scorrere del tempo.

 

 

Numerosi sono i riferimenti a stelle, astri, comete come a marcare una distanza e un passato irraggiungibili.

 

Mi ha sempre affascinato l’idea che nell’universo il tempo assuma una dimensione così dissimile dal nostro quotidiano, che la durata delle nostre vite sia cosa insignificante se paragonata a quella dei pianeti e delle stelle, che l’immagine degli astri ci giunga in ritardo di migliaia di anni, che esistano dimensioni parallele a noi inaccessibili in cui il tempo ha un’altra consistenza. Guardare il cielo popolato di presenze luminose mi inquieta, mi fa sentire quanto fugace sia l’esistenza umana. Le stelle che noi osserviamo sono immagini del passato, come vecchie fotografie, si palesano com’erano prima di giungere al nostro sguardo, non come sono nel loro presente per noi (quasi) inaccessibile. Hanno due esistenze, quella che noi percepiamo da quaggiù, e quella che va avanti o si è già spenta in un altrove lontanissimo. Anche il passato è per noi la componente del tempo che possiamo mettere più a fuoco, in quanto già definita, e forse per questo gli rivolgiamo così spesso la nostra attenzione. Mi sembra che il passato sia un cardine intorno al quale insistiamo a ruotare avvitandoci su noi stessi, a volte per tutta una vita, da cui continuiamo a rimanere sedotti, in trappola, pur non avendo nessuna possibilità di esperirlo ancora, se non nel ricordo. Come le stelle, che spiovono luce nelle notti buie, il passato è lì con tutta la sua parvenza di immutabilità, sembra di poterlo sfiorare invece è inavvicinabile, popolato da voci che ci arrivano in un’eco affievolita. È conchiuso in sé, eppure le parole ci suggeriscono che è plasmabile nel suo senso più profondo, perché possiamo rielaborarlo alla ricerca di nuovi significati, è dunque un varco che ci proietta immediatamente nel futuro, perché il modo in cui nel qui e nell’ora lo consideriamo influenza il nostro presente e ci orienta, come una stella polare, in una direzione piuttosto che in un’altra: il passato può essere la radice della nostra progettualità. E allora, forse, il peso della sua distanza siderale può diventare più sostenibile.

 

 

 

 

QUELLA VOLTA

 

Quella volta che il sole

è caduto per terra

con uno sparo di voce

al centro al cuore

dentro la sua stessa luce

colpito forte, sembravano

lucciole le schegge

che mi cascavano tra i capelli

legati in un nodo,

sembrava la fine di un mondo

 

ma poi la vita riprende  ‒ così dicono ‒

solo meno luminosa e

un poco più fredda, scomoda,

la voce torna ai suoi silenzi

collusi con le ombre, torna

a non dire a dire a metà

a farsi lieve vento tra le nuvole

che da quella volta mi seguono

premurose, in fila

 

non ho capito se in un corteo funebre

o per darmi l’illusione di essere ancora

una sposa ancora la stessa di prima

‒ in attesa sempre ‒ ancora viva.

 

 

 

 

RELIQUIA

 

È così che ricordo il tuo corpo

‒ sole minuscolo ingoiato

da un cielo di lucciole e assenze ‒

come candido marmo, una perla

screziata di buio per ogni silenzio

che custodisci con le mani di neve

 

Pochi giorni, le creste spampanate

dei soffioni turchini che si agitano

in questa distanza al rallentatore,

di paura in paura, e tu sei una statua

bellissima, terribile, senza occhi

né voce, reliquia del mio desiderio

 

Voglio tenerti‒ un ossicino traslucido

una ciocca di capelli velluto

una goccia di sangue carminio

anche un dentino per la fata che sono

quando ti rubo il respiro ‒ contro il mio cuore

o nella teca dell’ombelico, voglio che

l’odore di muschio che ti sboccia umido

in un’ombra del collo mi si arrampichi

addosso, lungo la schiena

 

Quando tornerai ad abbracciarmi

avrò cresciuto un piccolo bosco

d’inverno, bianchissimo,

dentro le vertebre e in bocca.

 

 

 

 

10 AGOSTO

 

Se vedessi una stella cadere

nel cielo notturno d’agosto

una stella vissuta un milione

di secoli fa, il suo ricordo uno sciame

lumino che si sgretola un poco

come fa la memoria quando viaggia

correndo per campiture celesti,

non le chiederei nulla, nessun desiderio

da realizzare, ma pronuncerei sottovoce

il tuo nome ‒ un’orazione segreta ‒

perché da molto lontano

da un tempo infinitamente distante

è tornato a trovarmi:

in un’altra galassia, in un universo fratello

miliardi di tramonti passati,

c’era una piazza in cui si affacciavano

nuvole di un bianco cangiante

e noi al centro di quel candore sospeso

 

allora, tutte le parole erano messe a tacere,

solo le mani si accendevano ‒ comete irrequiete ‒

e ogni sguardo era limpido, ancora

non conosceva la fine.

 

 

 

Le poesie sono tratte dalla raccolta inedita “Tempo di riserva”