Siamo tutti figli di una quercia

Gli abitanti dell’Arcadia, regione pastorale nel cuore della Grecia, la stessa in cui Virgilio collocherà i protagonisti delle sue Bucoliche, erano persuasi di essere il popolo più antico del mondo. Si definivano addirittura “Quelli prima della Luna”, perché si erano affacciati sulla scena della storia quando ancora l’astro che illumina la notte non aveva occupato il suo posto nel cielo. Soprattutto, gli Arcadi credevano che i loro più antichi progenitori fossero nati dal tronco di una quercia: forse perché quella pianta era considerata a sua volta la prima ad essere sorta dal grembo della terra, al punto che in greco la parola che la indicava era la stessa che significava “albero” in generale.

Nell’immaginario degli antichi, però, questa convinzione non era affatto limitata ai soli Arcadi. Al contrario, la credenza nell’origine dei primi esseri umani dalle querce aveva dato origine addirittura a un’espressione proverbiale, che ritroviamo già sulla bocca della saggia Penelope: «Certo, tu non sei nato da una quercia», osserva la regina rivolgendosi all’uomo nel quale non ha ancora riconosciuto il marito Odisseo, tornato in patria dopo vent’anni di assenza: e vuole dire che quell’ospite misterioso avrà pure una famiglia d’origine, dei genitori di cui fare il nome, e non sarà uno dei primi abitatori del mondo, che quel nome non potevano farlo perché erano, appunto, «nati da una quercia». Altri racconti narravano poi che quando Zeus aveva voluto modellare la terza stirpe mortale, dopo quelle dell’oro e dell’argento, l’aveva plasmata a partire dal legno di frassino: un materiale particolarmente duro e resistente, con il quale i Greci fabbricavano l’impugnatura delle lance. E infatti la stirpe del bronzo, come venne definita, era animata da uno spirito bellicoso che teneva i suoi membri in uno stato di perenne belligeranza e ne comportò l’estinzione in un bagno di sangue. Per non parlare delle storie che identificavano in altre specie vegetali – l’ontano, il pino, persino il più umile alloro – le madri vegetali del genere umano.

Questi miti, che raccontano un’origine dell’uomo così diversa da quella che la tradizione giudaico-cristiana ci ha reso familiare, servivano anche a spiegare un dato del quale gli antichi erano convinti: quando ancora l’agricoltura era sconosciuta, erano state le ghiande a offrire all’umanità il suo primo nutrimento. Come ogni madre, la quercia non si era limitata a generare i primi uomini, ma aveva anche garantito loro il cibo.

Storie fantastiche, buone solo per i racconti dei poeti? Solo in parte. Medici e scienziati, ad esempio, erano concordi nel ritenere che durante la sua vita uterina il futuro bambino seguisse le stesse tappe di crescita di un albero, sviluppando le braccia e poi le dita proprio come una pianta estende progressivamente i suoi rami e poi da questi fa spuntare rami ancora più piccoli. Persino la posizione del feto al momento del parto era assimilata a quella di un albero, con la testa verso il basso e le gambine aperte in alto: per i Greci, infatti, gli alberi non sono che uomini capovolti, perché le radici svolgono la funzione nutritiva che negli esseri umani è assolta dalla testa. Insomma, quello che a tutta l’umanità era successo all’alba della propria storia, tornava ad accadere ad ogni nuova nascita, perché prima di diventare a pieno titolo un bambino, ogni neonato era stato un albero nel ventre di sua madre.

Del resto, questo percorso poteva svolgersi anche a ritroso: Greci e Romani sapevano bene che in alloro si era mutata una ninfa vanamente concupita da Apollo, che il cipresso era stato un giovane amato dallo stesso dio, che l’albero della mirra non era se non l’omonima principessa trasformata in pianta, che i pioppi lungo le rive del Po furono un tempo le sorelle di Fetonte, precipitato nel fiume dopo aver tentato invano di guidare il cocchio del padre, il dio Sole, e così via. Per non dire dei fiori – l’anemone, il narciso, la rosa –, nati dal sangue di altrettanti giovani morti anzitempo, e persino delle canne di palude, metamorfosi di un’altra ninfa, Siringa, che si era così sottratta alle profferte del dio Pan.

Sono racconti meravigliosi, e insieme l’espressione di un modo di pensare il rapporto con la natura che privilegia le analogie e le continuità rispetto alle rotture. Residui di una cultura nella quale un poeta di cui conosciamo poco più che il nome, Zona di Sardi, poteva ammonire a non rivolgere la scure contro le querce, perché «i nonni ce l’hanno insegnato: sono loro, per noi, le prime madri».