Si sfanno gli anni, quando ti avvicini all’adesso – Gian Mario Villalta


 
Se penso al tempo mio diventa ora di tutti
– Il tempo – se mi perdo nel tempo ridivento io
 
 
 
 
 
 
Altri tre giorni, basta, sono uscito
a sfamare lo sguardo – con la scusa del supermarket –
ho fatto il giro largo, solo nell’auto
tra i campi percorrendo le comunali: nessuno.
un deserto di case e alberi, erbe fiorite e cielo.
solo io ancora vivo: che inferno sarebbe,
solo io prigioniero di tanto bendidio?
 

 
La parola ancora, percepibile
al tatto, torna al mittente
a occhi chiusi
 
(gli altri sono anche l’inferno, sì, sono
anche tutto, però)
 
 
 
 
 
 

Si sfanno, gli anni, quando ti avvicini all’adesso, a quel te stesso che ora sta vivendo (non è concesso sapere se stanno fuggendo, o ritornano non invitati – gli anni – per reclamare un’altra volta chi sei). Il tempo procede per precipizi, cabrate, catastrofi, mentre il calendario ci illude che abbia sostanza di continuità. La primavera del 2020 è stata una fine, non sappiamo ancora di che cosa. Ma sappiamo che la terra ci insegnerà la solitudine che abbiamo generato. Ora guardiamo gli animali, gli alberi, l’acqua, le coltivazioni e i deserti, non con la persuasione dello spirito che comprende la materia, ma scrutando la materia che ci lega in una comune appartenenza. Ci chiediamo se vinceremo l’illusionismo del potere, se ci ricongiungerà a noi il gemello che abbiamo abbandonato nascendo.Parliamo agli animali, alle piante, per interrogare la nostra stessa lingua che ha originato la parola natura.

 
da Dove sono gli anni (Garzanti, 2022)
 
 
 
 

Il tempo, l’uomo, la natura sono gli elementi precipui che connotano la raccolta di versi da cui abbiamo estrapolato alcuni passaggi, i più pregnanti a nostro giudizio per questo Microscopio. Nella ramificata produzione di Gian Mario Villalta i tre termini giuocano un ruolo fondamentale e oseremmo dire fondante di essa: il tempo come contenitore figurato di ogni cosa, che comprende la (ed è a sua volta compreso nella) parola di cui l’essere umano è esclusivo creatore e fruitore, e la natura che vive di un rapporto spesso conflittuale con questi. Nella solitudine, come si evidenzia segnatamente nella seconda poesia selezionata, si riscopre il senso più vero di sé, ma nell’assenza (in questo caso decisamente antitetica alla “più acuta presenza” di Bertolucci) si vive altresì la disperata e disperante sensazione di vacuità, di sgomento e scoramento. Tutto ciò che assorbe la nostra vista, i nostri sensi, il “bendidio” che ci è dato in dono, da non sprecare o violare, non può sprigionare i suoi effetti senza una relazione, senza un contatto umano, senza l’altro da sé.

Nasce quindi un senso di insoddisfazione che la scrittura densa, profonda, fortemente cerebrale del poeta suggella, come epifania di una individualità che diventa moto collettivo dell’animo. Se, dunque, l’inferno dei viventi è qualcosa che già esiste e che abitiamo, per stare alla nota chiusura calviniana delle Città invisibili, non ci è dato vincerlo o renderlo innocuo senza un posto nel mondo che ciascuno di noi trova in rapporto agli altri. E se l’altro è per noi inferno è altrettanto il tutto che spiega la nostra presenza: un’aporìa, potremmo dire per cui una situazione tiene l’altra e viceversa senza una soluzione. Ciascuno di noi è nella misura in cui è parte di un insieme. Nella terza poesia si fa ancora più acuto il “grido silenzioso” che ci contorce intimamente, nel trascolorare dei giorni che mutano e mutuano stilemi esistenziali, ingorghi, parti di noi, noi stessi tramutati e trasportati nell’oggi.

La scrittura di Villalta assume qui un connotato che riconduce alla filosofia, nella digressione sul senso del tempo e della correlazione con la nostra visione di esso. “Sfare” indica lo sciogliersi, il liquefarsi, il fondersi di qualcosa: così gli anni “si sfanno”, cangiano, si induriscono nel loro aumentare, reclamano la loro importanza anche se “non invitati” ed appaiono come nuova, diversa materia e il pensiero ci consegna sfasamenti temporali, dislocazioni di sé nel passato e nel futuro. Del resto non li percepiamo forse diversi gli anni nell’infanzia e nell’adolescenza quando risultano lenti e inesauribili rispetto alla velocità e al loro appannarsi nell’età adulta quando la nostra mente li osserva slabbrarsi, rendersi fragili e farsi perigliosi quando non condurre alla riemersione a ondate dei ricordi?

Il poeta ci dice di più: asserisce come il tempo, in realtà, non proceda senza soluzione di continuità bensì si smorzi, giri su sé stesso, si fermi e riparta, cada e riprenda poiché contenitore, come summenzionato, del nostro essere e “la vita è quella parte dei minuti che non si lasciano pensare mentre vivi”. Ritorna in più occasioni l’immagine del “gemello scisso” di noi stessi che potrebbe vedere una ricongiunzione: se accadrà troveremo gli effetti della catastrofe che il 2020 ci ha riservato. L’emergenza sanitaria ha funto da iato, da ideale se pur drammatica cesura tra un prima e un dopo: ci ha consegnato infatti lo sguardo su una terra ferita (nobile insegnamento) come l’umanità, in una ideale simbiosi da curare, da mantenere. Ma qui v’è di più: come efficacemente scrive Villalta, dobbiamo poter scorgere la vittoria sull’illusionismo del potere.

Ciò che di più prezioso ha la poesia è proprio la messa a nudo, come ogni arte, di qualsivoglia forma di potenza e di sopraffazione che egli pure brama. Ecco, pertanto, che diventa necessario tornare a una forma primigenia di dialogo, di incontro con la natura (gli animali, le piante) ponendoci verso un livello “comprensibile” ad essa, nella solitudine che ci viene insegnata. Ci pare qui di osservare un richiamo zanzottiano al valore pregnante dell’ambiente, si pensi a “Dietro al paesaggio”, libro d’esordio del veneto che pulsa di un contesto ambientale fortemente marcato, carico di plurimi significati e stimoli sensoriali. In Dove sono gli anni notiamo una diminuzione del potere dell’uomo sul creato poiché egli è parte di un tutto, una sineddoche del cosmo che trova nella sua imperfezione la sua gloria, purché conscio di ciò.

Solo se comprenderemo questo sarà possibile dare valore e fiato al verso più illuminante, candida speranza nonché sigillo dell’intera raccolta per il quale sempre ci troviamo di fronte a una “fantastica umanità: agli infelici non è negato il piacere; a chi ha un dolore non è negata la felicità”.

Federico Migliorati