Si aspettano le stelle nelle vibrazioni del cielo – Michela Zanarella

 

 

Rivissero le ombre sull’asfalto
pur se ne calpestammo il ricordo
il cuore radicò i tratti infiniti del sole
la luce era ormai su di noi
perfetta nella sua intensità
si spense a lungo per farci chiaro negli anni
sono accorse le stelle a mandarci le impronte
che avevamo lasciato a terra.
Stanno come edere rampicanti
gli sguardi
scie di ritorno nel giorno.

 

 

 

 

S’impara con gli anni a considerare il tempo
un binario da misurare con i palmi
ogni volta che si accede al giorno
non è un’alba in più o una croce da aggiungere a calendario
si allungano su di noi le stagioni ci attraversano il corpo
e l’età è quella strada che abbiamo percorso di fronte alla vita
nell’esultanza di chi muove passi sulla terra per un tratto preciso
le cadute sono servite a guardare meglio il sangue che guarisce
a contare sulle ossa un dolore da non temere più
nemmeno a un miglio dalle nuvole.

 

 

 

 

Eppure vengo da un’estate di fieno.
La luna mi chiamò all’inizio della sera
mi dovessero chiedere se ricordo la strada
direi che ho atteso il destino
sgusciando dai confini di mia madre
uscita dal recinto del tempo colsi fragole di bosco
e mi aspettai come si aspettano le stelle
nelle vibrazioni del cielo:
era un continuo tornare e ritornare e diventare altro
abituarsi a darsi un nome
a farsi luce per gradi.

 

(Michela Zanarella, inediti)

 

 

La parola di Michela Zanarella ha la capacità di mostrare un’esperienza autentica e semplice di amore per il mondo, per i suoi fenomeni e le sue contraddizioni, di cui fare tesoro con sguardo commosso e pieno: sono ricorrenti gli elementi naturalistici e paesaggistici, i chiaroscuri tra luce ed ombra, che si trasfigurano nel ricordo che si radica e stratifica nel bagaglio umano dell’io lirico.

La semplicità già citata non deve essere però intesa come visione superficiale o radente dell’esistere, ma come risultato di una attenta selezione: dopo aver rimosso ogni orpello e struttura estranea al nucleo del sentire necessario per l’autrice, ciò che ne residua non è che una genuina e amorevole cura verso le cose, una compartecipata sensazione di piena tenerezza verso il miracolo dell’essere nel mondo e in relazione con esso e l’altro-da-sé, in cui perdersi con limpida arrendevolezza.

Ed ecco che “il cuore radicò i tratti infiniti del sole”, custodendo il lato più prezioso della vita nonostante “le ombre sull’asfalto” e il calpestare “il ricordo”; anche se vi sono momenti di crisi esistenziale e sensibile, la piena consapevolezza della Zanarella ci dice che “la luce era ormai su di noi / perfetta nella sua intensità”, in un momento quasi predestinato, dopo essersi “spenta a lungo”: ed è un collegamento avvolgente quello tra “le stelle” che sono accorse e “le impronte / che avevamo lasciato a terra”, in un rapporto armonico tra tracce umane, infinitesimali, e quelle macroscopiche di ciò che ci sovrasta.

La relazione con il tempo è di insegnamento, e il consiglio è quello di trarre il meglio e ciò che c’è di più prezioso da ogni esperienza, come nel procedimento indicato a monte di questi versi: “s’impara con gli anni a considerare il tempo / un binario da misurare … le cadute sono servite a guardare meglio il sangue che guarisce”; e ciò nonostante le età, “le stagioni (che) ci attraversano il corpo”, fino ad arrivare a “contare sulle ossa un dolore da non temere più”, con un senso di ampia serenità verso le afflizioni trascorse, in una pacificazione con il passato, l’esistere e il mondo: non appare un caso se il verso finale mostra uno sguardo rivolto al cielo e alle nuvole, che, piuttosto che sembrare un elemento di confusione e di turbamento, appaiono come qualcosa di liberatorio, di identificativo, in una sincronia di concordanza e resa amorevole con il tutto.

Anche nell’ultimo testo le consonanze con le stagioni e gli elementi (“vengo da un’estate di fieno … la luna mi chiamò all’inizio della sera”) guidano il dettato in modo non dissimile da quanto esposto sinora, confermando quel senso di predestinazione e di fatalismo esistenziale positivo (“direi che ho atteso il destino”, suggerisce un verso, quasi a richiamare il proverbio giapponese che sentenzia gli uomini fanno ciò che possono, e attendono il destino) per poi spiazzare con il gesto innocente e infantile del cogliere fragole di bosco, dell’aspettare le stelle, del testimoniare un cielo vibrante; e con una chiusa che suona come un abbraccio, il divenire viene riassunto in un “continuo tornare e ritornare e diventare altro”, dove l’attitudine alla nominazione non è altro che un “abituarsi a darsi un nome” e un graduale “farsi luce” che, in ultima istanza, sembra ricongiungersi a quel “tratto infinito del sole” che, dopo avere invaso l’io del testo, sembra testimoniarne l’estrema e pacificante comunione con l’assoluto.

Mario Famularo