Monica Guerra è una ragazza che ho conosciuto alla prima e riuscitissima edizione del Premio Carducci in Carnia ne Il Comune Rustico. Una ragazza timida eppure intraprendente. Nata a Faenza ha infatti studiato negli Stati Uniti per poi tornare in Italia e diventare imprenditrice. Un atto di grandissimo coraggio, bisogna dirlo, soprattutto oggi. Il medesimo coraggio che leggo in questo suo Semi di sé (Società Editrice Il Ponte Vecchio 2015) che fin dal titolo suggerisce un’esplorazione intima del proprio vissuto e della realtà attorniante ma sempre attraverso il filtro del proprio sguardo privato. Tematica privilegiata da quanti si avvicinano alla materia poetica.
Monica bisogna dire che oltre ad essere arrivata finalista al suddetto Premio è finalista anche al premio Giovane Holden, cosa sicuramente prestigiosa e da citare e sottolineare. Nonostante questo devo ammettere, e qui rivesto un attimo i panni dell’Editore, che prima di pubblicare avrei pulito, e molto, i testi e i versi. Ma non è mia intenzione qui stroncare il bel libro di Monica (nonostante le speranze di Andrea Ponso, ovviamente non in relazione a questo articolo o libro, in una bella discussione con Alberto Toni, Giovanna Frene e Giovanna Rosadini su facebook sulla critica poetica in riferimento al mio precedente articolo Evviva la Poesia è vegana! – qui). Monica è una di quelle autrici che definirei pudiche, con quell’eccesso di pudore che poi le portano a usare giri di parole in luogo di semplici osservazioni di cui a tratti dimostra d’essere estremamente capace.
È fondamentale che gli Editori di poesia imparino a fare editing oppure che gli Autori, prima di pubblicare, si rivolgano o pretendano un confronto serrato e intenso, intransigente, sui testi. Questo a tutto guadagno del libro e dell’autore stesso. Come in questo specifico libro dove leggo dei versi che trovo luminosissimi (Perchè / certi uomini / in questa caligine / mi stravedono / la punta dei piedi / sottopelle il midollo), capaci di un senso del paesaggio intenso (qui, dove la lana fa l’inverno / e i seni nudi, a tratti, la riviera) assieme a delle descrizioni un po’ semplicistiche, un po’ scontate. Che non sono il vero dettato di Monica e questo emerge chiarissimo nei suoi testi più riusciti, o sarebbe meglio dire più sinceri.
È questo pudore, questa paura di mostrarsi che nell’autrice fa nascere esposizioni ed epifanie che trovo non sue, ma quasi a difesa di sè. In prefazione Aurea Bettini afferma, in relazione a una presunta anima trasferita nella magia della parola poetica, che Monica ce la dona in una lucida visione poetica del quotidiano, nello squartamento dell’animo umano, tentando di ricomporre un filo spezzato, con uno sguardo di sincerità vivida, senza pregiudizi. Il suo seme di sé è intravisto nella verità degli incontri che vivono comunque nelle lacerazioni di un mondo sperso nell’oblio. Non serve dire che non sono d’accordo con queste affermazioni laddove l’autrice è capace di versi quali Stamani mi dipano, / solo un attimo, / negli occhi di un gatto.
Perchè in Poesia non c’è spazio per anime né per io troppo sognanti. Ma la parola vive in quel gatto che assume in sé un non detto molto più evidente di ogni spiegazione. I seni dicono la riviera molto più di altro, quella punta dei piedi ha un carico di significati enorme e intensissimo. In Poesia bisogna saper lanciare il proprio io fuori da sé e schiacciarlo e fonderlo nelle cose quotidiane, nelle cose della vita di tutti i giorni, in quelle pieghe che non hanno bisogno di sentimenti o cuori perchè li hanno all’interno del loro Dna, e non hanno bisogno di dizioni perchè la loro stessa esistenza è dizione. Soprattutto in autrici quali Monica Guerra, capace di versi veramente molto belli e che probabilmente si meriteranno di vincere il Giovane Holden (io glielo auguro di vero cuore), ma che di fronte a testi così riusciti obbligano il lettore (o almeno il lettore che io sono) a chiedere di più. Perchè, e ne sono certo, Monica Guerra ne è e ne sarà capace.
È l’ora
che precede la veglia
mentre mi sfilo
dal nerobuio del tunnel
e d’un tratto
si fa natura d’intorno
tra gli schizzi la luce
e i gomitoli del sonno.
Inspiro intero
un dipano inviolato
tra i rami di senso
trame in divenire
saliscendi scoscesi
oasi di silenzi
i miei semi le parole.
Inspiro intero
quell’indifferente substrato
che ci ama
anche quando ci odia.
Ho amato tutti
al mio tavolo tondo
i cuori ispidi, l’abbandono
secco di mani
le ancore asciutte
la refrattaria attesa
di mare, le vele
che non osano porto.
Certi uomini
Perchè
certi uomini
in questa caligine
mi stravedono
la punta dei piedi
sottopelle il midollo
dritto il cuore.
Perchè
non so il perchè
il loro
uno stagliarsi limpido
un calore indefinito
un sapore buono
resiliente
che s’accquatta in bocca
nell’orecchio
come un conforto
nonostante
suono o saliva.
Perchè
non so il perchè
in ognuno
qualcosa di buono
in me certi uomini
qualcosa di ognuno.
Com’eri bella
Com’eri bella
tra quei filamenti di ebano
d’ambra calda la pelle
in un drappo di miele
e quel frusciare istantaneo
con cui d’un tratto spostavi la chioma
s’apriva della notte il sipario
e il tuo volto acerbo
come in cielo
uno spicchio di luna.
In provincia
Le borse della spesa
che tutti si conoscono
sottosopra l’unto cielo distratto
qui nulla accade
se non la primizia
di un pettegolezzo
qui, dove la lana fa l’inverno
e i seni nudi, a tratti, la riviera.
I centri commerciali
hanno tutti
lo stesso sottofondo
frittura d’aria stantia
un malsano artifizio
di jingle e vetri ubriachi
tra scaffali di “fai da te”
sulla giostra del giorno
l’uomo in saldo.