Se gli dèi si innamorano

Il giovane Cherea si trova in un momento di grande imbarazzo. Grazie al travestimento che lo ha trasformato in un falso eunuco l’uomo è riuscito a infilarsi nella casa della cortigiana Taide, dove si trova l’ancella di cui è perdutamente innamorato; ora i due sono soli in una casa quasi deserta, perché la padrona è uscita portando con sé gran parte della servitù, ma Cherea sembra paralizzato e non sa bene cosa fare. Poi, nel suo campo visivo entra un grande quadro, che fa mostra di sé sulla parete di fronte a lui: il dipinto rappresenta Giove mentre sotto forma di pioggia d’oro si unisce alla bellissima Danae, che suo padre Acrisio ha serrato in una cella perché da lei non possa nascere un figlio destinato a uccidere suo nonno, come hanno predetto gli oracoli. Ma una simile cautela certo non basta a tenere lontano il metamorfico signore degli dèi, che già in altre occasioni aveva saputo dissimulare il suo aspetto per unirsi alle donne mortali di cui volta per volta si invaghiva.

A noi però non interessano gli ulteriori sviluppi del mito, ma la reazione di Cherea, che di fronte all’immagine del dio supremo pronto a tutto pur di soddisfare i propri desideri si sente autorizzato a mettere da parte scrupoli e timidezze e a fare violenza all’ancella di Taide: se persino il più potente tra gli dèi era stato vinto dalla prepotente forza dell’eros, ragiona fra sé e sé, proprio lui, un piccolo omiciattolo, avrebbe dovuto resistere a quella stessa forza?

Questa storia – scritta per il teatro dal commediografo latino Terenzio e andata in scena alla metà circa del II secolo a.C. – presenta molti aspetti di grande rilievo. La violenza messa in atto da Cherea, ad esempio, si configura ai nostri occhi come un vero e proprio stupro, ma tale non doveva apparire al pubblico romano, se non altro perché la vittima di quella violenza era una schiava (anche se alla fine della pièce se ne scoprirà la nascita libera) e rappresentava dunque un oggetto di cui disporre a proprio piacimento. Soprattutto, la vicenda raccontata da Terenzio ci ricorda che nelle culture antiche l’amore, il desiderio, il sesso sono esperienze che non riguardano solo gli esseri umani, ma coinvolgono allo stesso modo anche la divinità: al punto che un giovane innamorato come Cherea può avvertire una forte complicità con Giove, nella consapevolezza che entrambi, l’uomo e il dio, sono mossi da una passione del tutto analoga.

Greci e Romani, insomma, non solo hanno attribuito ai loro dèi un corpo, sia pure eternamente giovane e non soggetto allo scacco della morte, ma a quel corpo hanno assegnato impulsi non dissimili da quelli che pungolano la carne mortale. Del resto, al pantheon degli antichi appartiene a pieno titolo Afrodite o Venere, la dea che il grande poeta Lucrezio definisce non a caso «piacere degli uomini e degli dèi» in quanto governa l’ambito del desiderio sessuale ed esercita il proprio dominio su mortali e immortali, nessuno dei quali è in grado di sottrarsi al suo potere. Per non parlare di quelle cosmogonie che facevano di Eros, personificazione divina dell’amore, la forza primordiale che all’origine dell’universo aveva propiziato l’unione degli elementi e la nascita del mondo come noi lo conosciamo.

Un simile modo di pensare il divino è dunque radicalmente diverso da quello reso a noi familiare dalla tradizione cristiana: una tradizione nella quale l’esperienza dell’eros riguarda esclusivamente il mondo umano e costituisce anzi un elemento di separazione tra gli uomini e il loro dio, al punto che ad essere valorizzato è il comportamento di chi rinuncia a quella esperienza e sceglie piuttosto la via dell’astinenza sessuale o della verginità, intese come altrettante pratiche che avvicinano il fedele alla divinità. Se Cherea sceglieva di farsi eunuco per unirsi alla donna di cui era innamorato, un noto precetto evangelico invitava semmai a farsi eunuchi «per il regno dei cieli», suggerendo l’idea di una radicale incompatibilità tra il desiderio sessuale e l’aspirazione a entrare nel novero degli eletti.

Non c’è dubbio, insomma, che si colga qui un punto di profonda divaricazione tra gli dèi greci e romani e il dio dei cristiani: da un lato divinità “vicine”, accomunate agli uomini dal fatto di condividere un aspetto strutturale e costitutivo della condizione mortale, dall’altro invece un dio “lontano”, nella misura in cui lo si immagina immune dalla carne e dalle sue pulsioni e incline anzi a vedere in queste ultime altrettanti frutti del peccato.