Nella grande pianura – Umberto Bellintani


Nella grande pianura, Umberto Bellintani (Mondadori, 2023, prefazione di Maurizio Cucchi).

“Udirlo a lungo un dolce canto non si può/ allor che tutto ci contiene l’universo/senza pericolo di cadere a un tratto folli”. Planare piano, nella grande pianura di Umbero Bellintani

Quando Maurizio Cucchi pubblica, una seconda volta nell’aprile di questo 2023, l’opera di Umberto Bellintani, per la collana Lo specchio. I poeti del nostro tempo – Mondadori –, compie, forse, un’opera ancor più coraggiosa di quanto non abbia fatto la prima volta, nel 1998, quando poté contare sulla vigile volontà e collaborazione del poeta stesso, riuscendo a strapparlo da un silenzio editoriale nel quale si era chiuso da oltre trent’anni. Bellintani sarebbe morto l’anno successivo: il nuovo millennio si sarebbe risvegliato senza di lui, ma con molti dei suoi testi ancora da editare. Il che, per buona sorte dei suoi lettori, è accaduto quest’anno, grazie ad una paziente selezione di Cucchi e alla cura che solo la figlia di un poeta può assicurare all’opera del padre perduto.

Il volume di cui si ragiona rivela una qualità poetica altissima, tale da suscitare un profondo dubbio circa quello che finora si è ritenuto il canone della poesia novecentesca. Il Secolo breve, attraversato compiutamente da questo discontinuo testimone, riesce a trasparire grazie a una strategia espressiva nuova e consumata nel contempo. Una cifra poetica, quella di Bellintani, che pare nutrirsi di paradossi, che si professa lontana dalle punte estreme dell’Ermetismo, ma lo accoglie, si svincola dal classicismo, cui tuttavia tende la mano, si schernisce dalla poesia filosofica, cui però costantemente anela, si fa profeta della parola rude e onesta, che rivendica con prepotenza, mentre contende l’oscurità alle penne più enigmatiche del suo tempo.

Con una forse troppo insistita ingenuità, molto meno autentica di quanto voglia mostrare, e la sincerità di chi invece sa, perché ha letto e conosce, studia con voracità e rapacemente si nutre di ogni esperienza vissuta, con malcelato disagio per un sentire che affiora troppo al di là delle dighe del buonsenso, Bellintani sperimenta registri espressivi variegati, passa dal semplice e dimesso lessico del quotidiano alla rielaborazione in codice nuovo dei grandi classici della tradizione lirica italiana.

E sopra tutto, morte e natura: nel modo di svolgere i due temi, in comune l’impossibilità di realizzare un discernimento, una linea di confine, tra paesaggio e sé, passato e presente, futuro e visione, vivi e morti. La natura è l’uomo: la natura e l’uomo. La natura è nell’uomo, e nell’uomo la ferinità, il dolore e l’eros, la disperata, violenta volontà di morire, e di continuare a vivere. La tensione tra i due poli dell’esercizio mortale si alimenta dell’esperienza centrale della campagna di Grecia: malcelata la rabbia del poeta per una vicenda di dolore mai accettata, causa di spettri dolenti e maledizioni fresche di rancore. E ancora, insieme al disgusto per quanto di atroce o semplicemente losco e squallido l’umano può rivelare, il conforto delle forme del paesaggio dentro cui il poeta s’invola e si fonde, diventando pianura, foglia, acqua di mare o di fiume, sorgente e greto, terra e lago. Un panismo alternativo, quello di Bellintani: un amore sconfinato per il luogo della sua vita, per quell’orizzonte di semplicità bucolica dove, però, non basta rifugio e schermo a trovare pace. Dove si insinua l’ombra della storia, e più ancora l’orrore della cronaca. Con qualche tenue passaggio dedicato a parentesi di amori poco o mai vissuti, all’ombra di un regime familiare, ancestrale e rassicurante nelle sue forme autentiche e certe, il poeta di Gorgo viaggia tra un ricordo e l’altro, un timore e un desiderio, un fremito e un sussulto, ma trova il vigore più autentico quando traduce in epitaffi le corde della sua ispirazione. È forse in quei versi, dedicati ai non più vivi, ma percepiti ancora sulla soglia dell’altrove -amici o personaggi pubblici, uomini e donne, talvolta bambini rubati all’esistenza – che Bellintani manifesta un’energia malinconica e inesorabile. La volontà di riprendere fiato e voce, farsi ascoltare, lasciarsi leggere per regalare un brivido di eternità a chi, nonostante tutto, scompariva dall’orizzonte suo e della storia.

Nell’architettura flessuosa de Nella grande pianura, che da singolo canto diventa titolo del volume in cui Maurizio Cucchi presenta Bellintani al nuovo millennio, si adagiano Forse un viso tra mille, le due fasi di E tu che m’ascolti, inframezzati dalla potenza sferzante di Paria, la nuova sezione Un abbaino in piazza Teofilo Folengo, e, per finire, un’Appendice, con passi antologizzati da Canto autunnale, Se vuoi sapere di me, e Nelle notti di poca luna. Stabilire una tipologia del verso, una prevalenza tematica, o l’adesione a una particolare poetica, da una raccolta all’altra, si rivela scommessa perduta in partenza. Ondivago nell’estro come nell’umore, Bellintani svincola se stesso dalla tentazione dell’appartenenza, dalla condivisione di una categoria, e si nasconde nell’arbitrio fanciullesco del cambio brusco, regalando al lettore il piacere straniante del volo inatteso. Non ha paura di inventare parole nuove, come chi ne cerca per tradurre sensi sconosciuti alla lingua, ma conosciuti ai più che potranno intuire, a leggerlo, un sentire comune.

Accade, ad esempio, di ritrovare la parola mancante in

Continuare

Bisogna continuare a credere nella poesia,
bisogna continuare a vivere di poesia,
a vivere la vita.
Bisogna uscire dalla folla,
credere ancora in Dio, tornare fanciulli nel cuore,
tornare alla contemplazione dei fiori,
della luna, delle piccole e grandi cose.
Lasciamoli agli altri gli stadi
le macchine le fabbriche le adunate sulle piazze
dove si infolla l’essere e muore.

Se uccidi un grillo, quale strada
può accogliere il tuo piede, quale cielo
il tuo occhio?
Quale cavallo la tua mano, quale fiore
il tuo sorriso?

Tutto è così difficile, impossibile… Ma chissà.
È nel mistero il clamore bianco della gioia.

E con le parole nuove, immagini e visioni tradotte in voci percepite come arcane, come in

Notturno sul mare

E poi che la rumoreggiante onda condusse il suo impeto
alle rocce brunastre scintillanti della luna,
io del mare mi assisi alla riva ed ascoltai
dell’eterno il gigantesco respiro lungamente.
E alti uccelli invisibili valicavano le montagne della notte
sopra le stelle volando, e il loro grido s’udiva argentino
come di acque scintillanti alle creste spumose dell’onda.
E quando – alle tre di notte – una barca raggiunse un vicino scoglio
e vi salirono i tre scheletri giganti di una razza sepolta
e cantando cogli occhi al firmamento s’inzupparono di luna
io vidi non lungi un veliero navigare
e un uomo si teneva ritto ed estasiato sulla tolda.

Molto passo cede al colore il lirismo di Bellintani; ai colori, anzi, che impregnano i suoi testi come una tavolozza, conseguenza, forse, di una formazione giovanile improntata alla scuola d’arte, dove imparò a essere scultore, a dare forma a ciò che –ancora – non ne aveva. Resta il colore come traccia di un’arte che non si accontenta dell’astratto, e vuole colpire più di un senso insieme. Esso, tuttavia, è tra i tratti più intraducibili da una lingua all’altra, specie quando si lega nell’indissolubile eco di una sinestesia, ma tanto più difficilmente una passo si traduce, tanto più sostanziale è la struttura poetica che lo ingabbia.

Nero è dunque il seno della donna, in quei versi che contendono la negritudine al primato pasoliniano, come pure il gatto, a volte bianco, ma nero è l’urlo dell’angelo (La terra spenta, p. 86), e nero è lo spavento orrido del lupo (Il lupo di Gubbio, p. 188).

 

Per alcuni la poesia è infermità, una maledizione cui non si può sfuggire. Un malessere negato e rinnegato, tanto da poter sperare di nasconderlo, tenerlo seppellito in un cantuccio del cuore, o in un fossato della vita. Perché è lì, nella forma del verso, che si manifesta la rabbia più feroce, la visone del folle, il delirio del bambino febbricitante. La paura grande di perdere il confine tra il sé e il mondo.

Succede così ad anime di uomini stupiti, che provano questa smania incontenibile, che violenta spinge quando qualche turbamento più grande del vivere quotidiano li travolge. È allora che la smania pretende una via d’uscita attraverso il foglio su cui vuole lasciare traccia, riconducendovi il dolore, il desiderio folle, la passione che non si vuole placare, o quella forza arcana e misteriosa che pretende la persona e il totale sforzo di sé. Ma quel foglio che lascia intravedere i disastri dell’anima, provoca sgomento e spavento, di ciò che la mente può disegnare, desiderare e stravolgere. Dunque va nascosto, mescolato con carte sparse, custodito e ignorato, fino a quando, però, in un moto di ritrovato orgoglio, di testarda volontà del dire, di cercare ascolto e riscontro, riemerge, nel desiderio timido di mostrarsi all’amico lettore e a sua volta poeta, come accadde a Bellintani con Parronchi. Poeta di mestiere, tuttavia, e di lungo corso, di esperienza colta, consapevole ed esperto, uomo di lettere, intellettuale attento e generoso, paziente orecchio di una voce prima flebile e timorosa, che da balbettio incerto diventa, poi, tuono e saetta.

Suggestioni, queste, che potrebbero essere uscite da una riproposizione delle tesi dello Ione di Platone, sul poeta/rapsodo che compone suo malgrado, in preda all’ἐνθουσιασμός –enthusiasmós-, una sorta di estasi divina, ma che sicuramente rivivono nel celebre parere di Montale, in una recensione pubblicata sul Corriere della Sera nel 1954, condiviso da chiunque si sia occupato, dopo di lui, del poeta di Gorgo (San Benedetto Po, Mantova) : “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola”.

Olga Cirillo

 
 
 
 
«Specchio, ma non sono mie queste mani
e gli occhi, specchio, il volto questo volto
mortale e il naso.»
Questo io sentivo una sera in un caffè
di città, lo ricordo, a Milano.
Era il senso della vita, l’immenso della vita
e poco di poi morivo.
 
 
 
 
 
 
E questa vita tesa all’impossibile
abbraccio d’orizzonti, all’infinito,
si ridurrà in un nulla dileggiato
un giorno dalle genti, in un intrico
malevolo di voci
 
sinché non venga morte a riposarla
alfine in un silenzio inestinguibile.
 
 
 
 
 
 
Non può di certo bastarmi questa notte
 
Non può di certo bastarmi questa notte
di fioche stelle e solo un giorno di sole
ma trecento o mille vite mi occorrono
per versare tutto il sangue che mi circola
tumultuoso nelle vene dissanguarmi.
 
E risento qui stanotte nel gran vento
d’universo nel vortice travolto
del tutto arcano insostenibile e gioioso.
Non può bastarmi questo palmo di terra
da percorrere per svuotarmi interamente
e tornarmene deificato alla sorgente.
 
26/7/1978