se sia lecito dirti la furia
le sere passate in un nembo di fumo
i silenzi traboccanti di lussuria
in cui penso tu mi accolga in grembo
se sia lecito dirti il profumo
dell’ansia, l’attesa della voce
che implora calma per le mani
se sia lecito dirti “domani
vorrei che tu mi fossi accanto”
mi chiedo: e in tanto invecchio presto
senza il gesto, la parola che incide
(il giorno ha sempre una fuga un ghigno
e mi deride)
non so più scrivere
non so più scriverti
per quali vie raggiungerti
con quali sguardi
suoni sorrisi gesti
e poi con quali pretesti
ora siamo palude
il brutto ci circonda
(e ci si affonda)
preso congedo dall’io
l’uno di fronte all’altra
ci siamo dimessi
noi da noi stessi
dall’essere individui
così senza riserve
senza residui
se amore è perdita
e insieme acquisizione
(non c’è alcun calcolo
né spazio per la ragione)
(Bruno Di Pietro, Baie, Oèdipus, 2019)
In questi testi Bruno Di Pietro ci restituisce, con un dettato sereno e assieme delicato, ma anche con momenti di amarezza e disincanto, alcune riflessioni sulle relazioni sentimentali, che diventano occasione di pensiero sul tempo, sul valore della parola e del gesto, della ragione e dei suoi rovesci.
La maturità del sentire è tutta nel peso delle parole, posate, ponderate, quasi epigrammatiche nel rendere il rispetto per l’argomento trattato e i soggetti coinvolti – cifra che è propria dell’autore, sia a livello formale che stilistico.
Nel primo testo l’io lirico si interroga sulla necessità del dire – del condividere i sentimenti propri della mancanza e dell’assenza alla persona amata – nel tratteggiare, fantasticando “le sere passate in un nembo di fumo / i silenzi traboccanti di lussuria / in cui penso tu mi accolga in grembo”, figurandosi l’immagine del contatto, dapprima, che diventa esplicita richiesta di presenza, poi.
Si intrecciano a questo desiderio, partorito dall’assenza, l’ansia e “l’attesa della voce” – e mentre l’io pondera, la bolla di sapone della riflessione razionale viene esplosa dal fulmen finale: “e in tanto invecchio presto / senza il gesto”, mentre il giorno è già trascorso, e sembra avere “un ghigno” che deride.
Il pensiero e la ragione si rivelano ingannevoli, e responsabili di far perdere l’occasione dell’attimo, che sfugge mentre lo si immagina e prefigura, interrogandosi sulla “legittimità” di dire o non dire ciò che si sente e desidera; nel secondo testo, questo sentimento si estende, e così diventa incapacità di scrivere, o meglio di “scriverti”, un non sapere come inverare il contatto (reale o figurato) con il tu cui si rivolge il dettato.
Con quali “suoni sorrisi gesti / e poi con quali pretesti” continua a chiedersi, finché non si realizza l’immagine immobile di tutta questa ponderazione: “ora siamo palude”, conclude lapidario – dove il peso di tutti questi dubbi non fa che impedire e soffocare il bel sentimento che pure sembra conosciuto e sottinteso – “il brutto ci circonda / (e ci si affonda)”.
Quale allora il modo di raggiungere “il bello” del sentimento, quale il modo di viverlo autenticamente e senza “affondare” nelle sue trappole? Mettendo da parte sia la volontà di pianificare azioni e reazioni, effetti e conseguenze, sia l’invadente presenza del pensiero individuale e – spesso – individualista, che può avvelenare anche le relazioni umane più genuine: “preso congedo dall’io / l’uno di fronte all’altra / ci siamo dimessi / da noi stessi”.
E qui Di Pietro ci regala, in chiusa, una perla di semplicità e verità umana, che spazza via tutto “il brutto” che pure ci aveva mostrato – con i suoi pericoli – nei testi precedenti: “se amore è perdita / e insieme acquisizione / (non c’è alcun calcolo / né spazio per la ragione)” e dunque: amore come esperienza del perdersi, mettendo da parte il calcolo relativo a eventuali guadagni o desideri – perché dare spazio a questa ragione famelica non fa che strozzare, nella palude intellettuale della computazione individuale, la semplicità e la bellezza dello scomparire l’uno nell’amore verso l’altro da sé, incuranti di ogni timore inscenato dal pensiero.
Mario Famularo