Rainer Maria Rilke

Bozza automatica 2852
 
 
 
 
Die zweite Elegie
 
Jeder Engel ist schrecklich. Und dennoch, weh mir,
ansing ich euch, fast tödliche Vögel der Seele,
wissend um euch. Wohin sind die Tage Tobiae,
da der Strahlendsten einer stand an der einfachen Haustür,
zur Reise ein wenig verkleidet und schon nicht mehr furchtbar;
(Jüngling dem Jüngling, wie er neugierig hinaussah).
Träte der Erzengel jetzt, der gefährliche, hinter den Sternen
eines Schrittes nur nieder und herwärts: hochauf-
schlagend erschlüg uns das eigene Herz. Wer seid ihr?
 
Frühe Geglückte, ihr Verwöhnten der Schöpfung,
Höhenzüge, morgenrötliche Grate
aller Erschaffung, – Pollen der blühenden Gottheit,
Gelenke des Lichtes, Gänge, Treppen, Throne,
Räume aus Wesen, Schilde aus Wonne, Tumulte
stürmisch entzückten Gefühls und plötzlich, einzeln,
Spiegel: die die entströmte eigene Schönheit
wiederschöpfen zurück in das eigene Antlitz.
 
Denn wir, wo wir fühlen, verflüchtigen; ach wir
atmen uns aus und dahin; von Holzglut zu Holzglut
geben wir schwächern Geruch. Da sagt uns wohl einer:
ja, du gehst mir ins Blut, dieses Zimmer, der Frühling
füllt sich mit dir… Was hilfts, er kann uns nicht halten,
wir schwinden in ihm und um ihn. Und jene, die schön sind,
o wer hält sie zurück? Unaufhörlich steht Anschein
auf in ihrem Gesicht und geht fort. Wie Tau von dem Frühgras
hebt sich das Unsre von uns, wie die Hitze von einem
heißen Gericht. O Lächeln, wohin? O Aufschaun:
neue, warme, entgehende Welle des Herzens ;
weh mir: wir sinds doch. Schmeckt denn der Weltraum,
in den wir uns lösen, nach uns? Fangen die Engel
wirklich nur Ihriges auf, ihnen Entströmtes,
oder ist manchmal, wie aus Versehen, ein wenig
unseres Wesens dabei? Sind wir in ihre
Züge soviel nur gemischt wie das Vage in die Gesichter
schwangerer Frauen? Sie merken es nicht in dem Wirbel
ihrer Rückkehr zu sich. (Wie sollten sie’s merken.)
 
Liebende könnten, verstünden sie’s, in der Nachtluft
wunderlich reden. Denn es scheint, daß uns alles
verheimlicht. Siehe, die Bäume sind, die Häuser,
die wir bewohnen, bestehn noch. Wir nur
ziehen allem vorbei wie ein luftiger Austausch.
Und alles ist einig, uns zu verschweigen, halb als
Schande vielleicht und halb als unsägliche Hoffnung.
 
Liebende, euch, ihr in einander Genügten,
frag ich nach uns. Ihr greift euch. Habt ihr Beweise?
Seht, mir geschiehts, daß meine Hände einander
inne werden oder daß mein gebrauchtes
Gesicht in ihnen sich schont. Das giebt mir ein wenig
Empfindung. Doch wer wagte darum schon zu sein?
Ihr aber, die ihr im Entzücken des anderen
zunehmt, bis er euch überwältigt
anfleht: nicht mehr -; die ihr unter den Händen
euch reichlicher werdet wie Traubenjahre;
die ihr manchmal vergeht, nur weil der andre
ganz überhand nimmt: euch frag ich nach uns. Ich weiß,
ihr berührt euch so selig, weil die Liebkosung verhält,
weil die Stelle nicht schwindet, die ihr, Zärtliche,
zudeckt; weil ihr darunter das reine
Dauern verspürt. So versprecht ihr euch Ewigkeit fast
von der Umarmung. Und doch, wenn ihr der ersten
Blicke Schrecken besteht und die Sehnsucht am Fenster,
und den ersten gemeinsamen Gang, ein Mal durch den Garten:
Liebende, seid ihrs dann noch? Wenn ihr einer dem andern
euch an den Mund hebt und ansetzt -: Getränk an Getränk:
o wie entgeht dann der Trinkende seltsam der Handlung
 
Erstaunte euch nicht auf attischen Stelen die Vorsicht
menschlicher Geste? war nicht Liebe und Abschied
so leicht auf die Schultern gelegt, als wär es aus andern
Stoffe gemacht als bei uns? Gedenkt euch der Hände,
wie sie drucklos beruhen, obwohl in den Torsen die Kraft steht.
Diese Beherrschten wußten damit: so weit sind wirs,
dieses ist unser, uns so zu berühren; stärker
stemmen die Götter uns an. Doch dies ist Sache der Götter.
 
Fänden auch wir ein reines, verhaltenes, schmales
Menschliches, einen unseren Streifen Fruchtlands
zwischen Strom und Gestein. Denn das eigene Herz übersteigt uns
noch immer wie jene. Und wir können ihm nicht mehr
nachschaun in Bilder, die es besänftigen, noch in
göttliche Körper, in denen es größer sich mäßigt.
 
 
 
 
 
 
Seconda elegia
 
Ogni angelo è tremendo. E tuttavia,
ahimè, io canto a voi, quasi mortiferi
uccelli dell’anima, di voi sapendo. Dove
mai sono i giorni di Tobia, quand’uno
dei più splendenti stava al semplice uscio,
la veste un po’ mutata per il viaggio, e già
non più terribile; (giovane al giovane
allo sguardo curioso). Se l’arcangelo adesso,
il pericoloso, da dietro le stelle
si sporgesse all’ingiù verso di noi
solo di un passo, con innalzato battito
ci abbatterebbe il nostro stesso cuore. Chi siete?
 
Voi riusciti per primi, voi del creato
viziati, catene di montagne, creste aurorali
d’ogni creazione, – polline del dio fiorente,
giunti di luce, corsie, scale, troni,
spazi di essere, scudi di gioia, tumulti
d’entusiasta burrascosa emozione, e
specchi, d’improvviso, singoli: che la propria
defluita bellezza nel proprio volto riattingono.
 
Perché noi, ove affetto ci prende, dileguiamo; ah, noi
espiriamo noi stessi, e via; di brace in brace
manda il legno di noi sempre più debole odore.
Uno potrebbe dirci: sì, tu mi vieni nel sangue,
questa stanza, la primavera, si riempie di te…
Che serve, non ci può trattenere, noi scompariamo
in lui e attorno a lui. E loro, le belle, oh,
chi le trattiene? Senza cessare s’alza quella luce
sul loro volto e va via. Come rugiada
dall’erba di mattina si leva il Nostro da noi,
come il calore da un cibo bollente. Oh sorriso, verso dove?
Oh sguardo verso l’alto: nuovo, caldo, sfuggente
flutto del cuore -; ahimè: eppure
è l’esser noi. Ha forse di noi sapore
il cosmo in cui ci dissolviamo? Afferrano
gli angeli veramente soltanto il loro, da loro
defluito, oppur talvolta, come per svista, vi è
un po’ del nostro essere? Siamo nei loro tratti
mischiati appena come quel vago nei volti
delle donne in attesa? Non se ne avvedono nel vortice
del ritorno a se stessi. (Come avvertirlo?)
 
Chi ama potrebbe, se capisse, nell’aria della notte
parlare stravagante. Perché sembra che tutto
fa segreto di noi. Guarda, gli alberi sono; le case,
che noi abitiamo, rimangono. Solo noi tutto
trapassiamo, come aria leggiera che si muta.
E tutto è unanime, nel silenzio su noi,
metà vergogna, forse, e metà speranza ineffabile.
 
Amanti, voi l’un nell’altro contenti,
io vi chiedo di noi. Voi vi prendete. Avete prove?
Guardate, mi accade che le mani l’un l’altra
si riconoscono, oppure che il mio usato
volto in esse si protegga. Questo
un po’ mi commuove. Però chi mai oserebbe
solo per questo essere? Ma voi che nell’incanto
l’uno dell’altro vi accrescete, finché l’altro
sopraffatto vi implora: non più -; voi che sotto le mani
vi divenite più turgidi come vendemmie feconde;
che talvolta svanite sol perché l’altro prevale
del tutto: a voi chiedo di noi. Io so,
voi vi sfiorate beati, perché la carezza trattiene,
perché quel dove non sparisce che voi,
teneri, coprite: perché là sotto sentite
il puro perdurare. Così vi promettete
quasi l’eterno dall’amplesso. E tuttavia,
voi, vinti i primi sguardi d’orrore e la struggente
attesa alla finestra e il primo
camminare congiunti, una volta, in giardino:
amanti, lo siete ancora? Se voi uno alla bocca
dell’altro vi sollevate ed accostate -: bevanda
a bevanda: oh come poi all’atto
sfugge stranamente chi beve.
 
Non vi ha sorpreso sulle attiche stele
la cautela del gesto umano? Non era
amore e congedo così leggiero
sulle spalle posato come fatto
d’altra sostanza che da noi? Rammentate
le mani, come senza peso riposano
sebbene nei torsi è la forza. Così
quegli artefici sapevano: fin qui
siamo noi, è nostro questo, di così sfiorarci;
più forte battono gli Dei su di noi, ma questo
è cosa degli Dei.
 
Oh, se trovassimo anche noi un qualcosa di umano
discreto, esile, una nostra
striscia di fertile terra, tra fiume e roccia.
Perché il nostro cuore ci valica
ancora sempre come loro. E più
non possiamo seguirlo con lo sguardo
in immagini volte a placarlo, neppure
in corpi divini nei quali, più grande, si modera.
 
 
Traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien