IL VELIERO CANNIBALE 18 – ACUSHNET III

IL VELIERO CANNIBALE 18 - ACUSHNET III

Winslow Homer, The fog warning

 

 

Malinconie, anacronismi e moralismi del Capitano Peleg

 

 

Moby Dick è il libro che più si avvicina al Libro dei libri. In nessun altro si disputa intorno all’esistenza di Dio, o alle prove della sua inesistenza. In uno l’immensa Arca; nell’altro l’oscuro Pequod, che è di Achab, ma non è Achab, perché il Pequod è il suo proprietario, il quacchero, il dimenticato Peleg, che l’aveva addobbato “come un barbaro imperatore etiopico… Era fatto di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”.

Parafrasando le parole usate da uno scrittore per parlare di un altro scrittore, il nostro Capitano Peleg, risorto con un artificio, è un naufrago del passato che il Fato ha proiettato sulle sponde di un altro tempo. A cura di Frescobaldi MacIntyre.

 
 

ACUSHNET – Parte terza

 

Sedeva in fondo alla cabina, sul pavimento, seminascosto tra una cassa e un ammasso di vele. Aveva la testa china, affondata nel petto, e in una delle mani, che teneva sulle ginocchia flesse, un foglietto di carta spiegazzato. Indossava un paio di calzoni da lavoro, stivaletti in pelle di foca e una camicia bianca che più che uscita da un naufragio, sembrava esserlo da cento notti insonni trascorse a rigirarsi in un letto, in preda all’inquietudine o alla prostrazione. Poteva avere trenta, quarant’anni forse. Pease non trovava nei lineamenti del suo volto nulla degno di nota, se non che fosse stranamente fresco di rasatura. Nel complesso l’uomo gli risultò quasi indifferente, e questa mancanza di curiosità verso qualcuno incontrato in circostanze così singolari, lo mise a disagio.

D’altra parte, gli occhi dell’uomo rispondevano ai suoi nello stesso modo, e soprattutto non mostravano la gratitudine o il sollievo di chi dopo essere scampato a una tempesta o a un disastro, di nuovo veniva baciato dalla sua buona stella e poteva rimandare l’ultimo viaggio. Aveva un’espressione piana, di cristallo.

Parlava tra sé e sé, in inglese, a voce così bassa da non consentire a Pease di intendere cosa dicesse.
Quando gli si avvicinò, sollevò la testa.

“E se un uomo, in sogno, attraversasse il Paradiso e gli dessero un fiore…” disse allora il naufrago a Pease; e il capitano ebbe la netta sensazione che si fosse interrotto a metà di qualcosa di compiuto e comunque non per sua volontà, ma perché incapace di continuare.

Poi, appoggiandosi alla cassa si era alzato stando attento a non urtare la volta bassa del ripostiglio; lasciando cadere per terra il foglietto che stringeva in una mano, si era sistemato la camicia infilandola nei pantaloni, quindi aveva superato Pease scostandolo con delicatezza ed era uscito sulla coperta del battello.

Il capitano lo aveva seguito sul ponte in silenzio. Più tardi avrebbe chiesto conto del perché Hall e gli altri non avessero fatto menzione del naufrago o peggio che non si fossero accorti di lui quando avevano raggiunto il battello per trainarlo fino alla nave.

Per issarsi a bordo avevano usato il paranco con cui la lancia era stata riportata sull’Acushnet e i cui cavi pendevano ancora sulle loro teste; allora, li avevano tratti a sé ed erano saliti insieme sul gancio dell’argano per farsi tirare su.

Quando sentì le assi del ponte scricchiolare sotto gli stivali, Pease si voltò a guardare il battello, che si era già allontanato di una decina di metri dalla nave immobile, come scortato da una corrente marina invisibile e costante.
Il naufrago era accanto a lui e si guardava intorno, soppesando tutto ciò che i suoi occhi inquadravano. Il capitano sapeva, per esserci passato molti anni prima al largo di Nantucket, che essere ripescati dal mare equivaleva a una sorta di resurrezione. Sembrava di nascere di nuovo e di dover ridare il loro nome a ognuna delle cose che tornavano tangibili e possibili dopo che si era creduto di averle perse per sempre.

Ecco che si immaginava che il naufrago stesse rinominando in quel momento l’albero, i ponti, ciascuna delle parti della nave e del velame; che si stesse riappropriando delle voci delle persone e dei rumori prodotti dalle loro azioni. Il silenzio del mare e lo spettro di una morte imminente, ci mettono poco a cancellare tutto, a fare di un uomo l’orfano di se stesso.

In quel momento si sentì chiamare. Era John Hall.

Che aveva una bella cera e che era felice di vederlo là, sul ponte, a guidarli, erano state le prime cose che il primo ufficiale gli aveva detto, dopo aver salutato lui e il naufrago, accennando con il cappello e facendo un mezzo inchino. Prima che Pease avesse il tempo di chiedergli lumi sul segreto che il battello custodiva, Hall aveva reso nuovamente la descrizione accurata di ciascuna delle fasi del recupero: la corrente, gli squali intorno alla barca semidistrutta, Barnet e il suo arpione.

Pease si propose di non interromperlo e aspettò con pazienza che finisse di raccontare i fatti già noti e che omettesse gli altri. Quando il Secondo terminò, gli chiese con un tono che voleva essere biasimevole ma che finì per risultare soltanto sarcastico, se il trofeo a cui aveva fatto riferimento poco prima parlando della decisione di trainare il relitto sotto la baleniera, fosse il suo contenuto, e dicendolo aveva indicato con il capo l’uomo stravolto che gli stava accanto.

Hall con un sorriso nervoso, farfugliò qualcosa e forse preferendo tagliare corto davanti a un suo comportamento che ora pareva anche a lui discutibile, si limitò a esprimere tutto il suo rammarico.

Comunque, è lontana ormai – aveva detto alla fine Hall indicando nella direzione del battello.
Voltandosi da quella parte, Pease notò che la barca in effetti si era quasi dileguata.