Precari – Gilda Policastro


 
Precari
 
Mamma tu lo sai
che a un idiota qualunque
se va a leggere su un palco
(li chiamano slam poetry)
gli danno quanto meno cento euro
(lo chiamano gettone di presenza)
e se lo vince ci può campare un mese,
certo senza pretese
Mamma mi ricordo quando non camminavi
papà a spingerti giù nel corridoio
overlook dice un poeta di oggi, come in Shining,
e tu battevi i piedi, invece,
come un bambino al mare
Mamma tu lo sai che oggi
se va bene mi rinnovano il contratto
ma devo sorridere, carina e ben vestita
(da ricercatrice a tempo, che hai capito da velina)
Mamma ti ricordi com’eri bella nelle foto
in cui ci somigliamo
(meno disoccupata tu,
meno gettone di presenza
una supplenza tre figli e
– lo leggevi Céline? – l’atroce
farsa del durare)
ma lo sai che adesso
puoi lavorare gratis, se ti dice male,
e un fidanzato a tempo lo rimedi:
precario oggi è come postmoderno ieri,
come il nero,
si mette dappertutto che non stona
Mamma tu nelle foto eri bella,
mentre ora che ci guardano le telecamere
ti prendi, magari, un’ombrellata
e se ne muori
almeno sai chi è stato
Mamma gli altri miei amici hanno le mamme
che sorridono, a volte, tutte vive
(le tue medicine impilate
più il potassio per ripristinare i liquidi),
e adesso, sì, ti porterei dove volevi andare,
in quel posto molto chic a s. Lorenzo:
dieci euro e mangi una, due prese,
alla terza ti guardano male (lo chiamano happy hour),
e ti farei leggere quello che scrivo
quando dicevi
la dobbiamo far vedere, non è normale,
o ti potrei presentare i fidanzati,
pure quel curdo di cui diresti non sia mai
Mamma ti vengo a prendere, alzati,
dai aria alla stanza e, soprattutto,
fatti trovare
 
(2011)
 
 
(da La distinzione, Giulio Perrore 2023)
 
 
 
 

Ho scelto di commentare questa poesia perché è la prima del nuovo libro, ma, come si ricava dal titolo della sezione (Antefatto) e dalla data in calce (2011), si tratta di una poesia molto vecchia, una delle mie prime poesie, o se non delle prime poesie, della prima serie di poesie. Questa serie in particolare si intitolava Nuove stagioni, e faceva parte del mio primo libro compiuto, Non come vita, uscito nel 2013 per Aragno. Alla prima presentazione del nuovo, che s’intitola La distinzione, Gianluigi Simonetti ha ricordato come la vita sia negli ultimi anni editorialmente vincente, nei titoli dei romanzi (ma anche delle poesie), com’era una volta l’amore. Ma nel mio titolo era preceduta dalla negazione leopardiana dell’operetta del Fisico e del Metafisico: ameremmo la vita, e sceglieremmo di tenercela per sempre, e di riviverla, ove fosse felice, non come vita. Ed ecco uno dei modi in cui, sempre secondo Simonetti, la mia scrittura si distingue: facendo il contrario di quello che gli altri si aspettano/vogliono/cercano. Talmente mi ci ritrovo, in questi panni del bastian contrario, che oggi faccio l’opposto di quello che io stessa voglio/ricerco nella poesia, mia e degli altri.

Questa poesia è una preghiera a mia madre morta. L’intenzione orante è svelata dall’ultimo verso. Non la leggerò più in pubblico, l’ho promesso ai miei nervi che non sono invero mai stati saldi. Quando leggo le poesie, o meglio quando le leggevo in passato, soprattutto le poesie sulla morte, o mi tremava la gamba o la voce, se controllavo l’una sfuggiva l’altra. Sfuggiva nel senso che tremavano i labbri come quando stai per metterti a piangere, per fortuna non è successo direi mai, perché non me lo sarei perdonato io, ma ancor di meno lo avrebbero perdonato gli odiatori della poesia confessional, quella che parla dei fatti tuoi, come hanno più o meno sempre fatto le poesie, in specie, pare, le poesie di donne, da Saffo a Plath. Poi pure Leopardi effettivamente, ma cambiava i nomi, Teresa Fattorini era Silvia, etc. In questa poesia non c’è solo la morte, perché il dialogo con mia madre assente si svolge come si svolgeva quando era viva. Parlavo sempre io. Lei disapprovava, o vietava. Ma i discorsi, quelli lunghi, li facevo io e chissà se mi ascoltava. In questo discorso le parlo della mia vita precaria, dei poetry slam con cui alcuni miei amici poeti dicevano di riuscire a mantenersi, ma erano di quelli bravi, che giravano il mondo. E bravi nel senso che non erano poeti, ma performer, alcuni proprio dei clown, con tutto il corredo di ausili (megafoni, video, occhialetti) non autorizzati dalla poesia tradizionale (e certe volte nemmeno nei poetry slam). In questa poesia vecchia ci sono delle cose che io stessa non capisco più (chi fosse il curdo di cui la madre avrebbe dovuto dire “non sia mai”), ricordo invece il riferimento al “corridoio overlook” che era Kubrick passato al setaccio di Ottonieri, a me molto vicino in quegli anni come poeta, come performer e come amico. Mia madre è morta a dirlo oggi sembra un evento, un punto fermo, invece è stato, negli anni che hanno preceduto la poesia e nei pochi mesi di effettiva preparazione alla sua morte, uno strascinamento progressivo in quel corridoio in cui non si capiva chi sarebbe impazzito prima. Lei che arrancava, o io e il padre che correvamo ai suoi comandi. Questo la poesia non lo dice, ma è il motivo per cui parlo del corridoio overlook. Un altro motivo della poesia è l’assenza di filmati in cui posso vederla, o di audio, di tutto ciò che nel 2011 cominciava in effetti a costituire il nostro mondo iperschermato e iperconnesso: così anche la morte cominciò a essere ripresa dai telefoni, non solo dalle videocamere di sorveglianza come nell’episodio di cronaca a cui mi riferisco nei versi dell’ombrellata. Una volta ho chiesto a un amico che è anche poeta, Giulio Mozzi, se secondo lui devo mettere le note a piè di pagina alle poesie, per esplicitare i riferimenti che non si capiscono. Lui ha detto secco: no, anche se non mi pare me l’abbia poi spiegato. Giulio Mozzi è anche uno di quegli scrittori-critici che mi sono trovata di fronte a “RicercaBo” (rassegna di inediti) la prima volta in assoluto in cui ho letto i miei testi. Mi pare di ricordare che mi rimproverò un eccesso di schermi intellettuali, di non aver dato propriamente corso al dolore come avrei (forse) voluto fare. Di aver trasformato questa preghiera (non disse così, ma oggi mi viene da pensarlo) in una recita. Ecco. Oggi non voglio più recitare, mi crea disagio leggere in pubblico, questi reading, questi saggetti di fine anno in cui nessuno ascolta nessun altro e pensa al momento in cui arriverà il suo turno, cosa leggere, e quanto (di solito 5’, sennò ammorbi). Ho scritto molte altre cose più belle, più interessanti di questa poesia. E forse in assoluto le mie poesie non valgono più di altre, di tante altre che si potrebbero leggere e commentare (forse non valgono meno, anche, di altre poesie, tante altre che leggiamo). Quello che so di sicuro, dopo tanto scrivere e provare a distinguermi nella scrittura negando quelle cose che premia l’editoria, e con l’editoria i lettori, è che in certe cose non mi distinguo affatto. Ho scritto una poesia per mia madre, straziante. E lasciatemi patire senza rimorsi.

Grazie.

Gilda Policastro

 
 
 
 
Foto di copertina di Dino Ignani