“Questo è il racconto di sempre. Delle armi di Achille che scesero in fondo al mare. Dei morti in guerra che non sanno come e quando finirà la guerra. Del canto delle cicale e del pianto degli uomini. Della brezza del mattino o del mare increspato davanti al silenzio di una casa malandata. Questo libro è scritto da un poeta e da un pittore. Non può che parlare dell’unica cosa che conti per davvero: dell’eternità della vita.”
Recita così la quarta di copertine di Postomeriche, l’ultimo nato di Claudio Damiani, pubblicato per Amos Edizioni a marzo 20241. Il volume organizza in modo nuovo alcune liriche già pubblicate in precedenti raccolte e altre inedite attorno a un nucleo omerico che appare e scompare, in intermittente dinamica, attraverso vicende che scorrono tra suggestioni classiche e allusioni alla realtà contemporanea: realtà che quasi svapora tra i fumi di una visione lirica che si radica così profondamente nel respiro della classicità, da lasciare stupito il lettore per la naturalezza con cui il canto dell’aedo attraversa e percorre miti e testi del mondo antico. Omero, soprattutto, insieme ai poemi del ciclo, e accanto a lui l’epos morbido e disobbediente di Ovidio, che va alternandosi, a sua volta, al distico delle raccolte elegiache per contaminarne suono e ritmo. Le sezioni in cui il liber si organizza sono sette: le armi di Achille, Chi muore in guerra, Per i morti di Covid 19, E questo canto, Guarda come brillano le onde, La vecchiaia di Ulisse, Ulisse a Penelope. Non c’è proporzione tra le parti, ma interruzioni amabilmente scandite dai disegni di Giuseppe Salvatori, autore, tra l’altro, dell’istallazione Eroidi realizzata nella primavera 2023 al Tempio di Adriano a Roma, in occasione della quale Damiani scrive Ulisse a Penelope, che qui chiude la raccolta. Eccone alcuni versi, quelli iniziali, che avviano l’opera alla conclusione:
Cara Penelope, affido a una bottiglia questa lettera che ti scrivo
in un momento in cui il mare è stranamente calmo
e una montagna scura sembra attrarre misteriosamente
a sé la nave che si muove senza vele né remi.
Sapevi che sarei ripartito, mi vedevi la sera
camminare pensoso lungo la spiaggia sassosa
fissando a lungo il mare e l’orizzonte lontano
o sulla terrazza della reggia scrutare i venti volubili
o accarezzare il timone appeso sopra il focolare.
Il mare che ancora, e stavolta per sempre, separa da Penelope Ulisse, è protagonista, con Omero, dell’intero svolgersi della vicenda poetica che Claudio Damiani racconta, scegliendo, però, di far dialogare tra loro le suggestioni più vitali che emanano dal canto di Omero:
Le armi di Achille scesero in fondo al mare
quella notte terribile di tempesta
che si ruppe la nave di Ulisse
E dal mare, come sa chi ben conosce il mito e le fonti antiche, le armi furono dolcemente sospinte sulla tomba di Aiace, quasi a consolare l’eroico gigante e risarcirne per l’eternità l’umiliato dolore, presso il promontorio reteo: l’immagine viene non solo evocata alla mente del lettore, ma disegnata sulla pagina, prima di mutare in altra sequenza e altro disegno, in cui il tema dominante diviene ciò che le armi provocano all’uomo che le indossa, e ancor più all’uomo che decide di spogliarsene, di deporle, e con esse l’armatura, lo schiniero spaventoso che suscita terrore, non solo nei bambini. L’eroe antico somiglia sempre più, in questo suo volersi disfare del fardello quotidiano, all’uomo di oggi: entrambi combattono una guerra senza senso e senza fine, o forse una fine che tuttavia non si potrà o non si vorrà conoscere. Molto più dolce, infatti, potrebbe essere morire prima di un esito spesso funesto, per chi si ama piuttosto che per se stessi.
Spesso chi muore in guerra
muore perché non vuole vedere la sua città presa,
la sua donna diventata schiava,
i suoi figli piccoli gettati giù dall’alto delle mura,
spesso chi muore in guerra
muore perché non vuole vedere,
non vuole sapere.
Nell’incertezza di una guerra incognita, incombente allo stesso modo sull’uomo di ogni tempo, potenzialmente priva del conforto di un rito funebre, di una sepoltura degna, nei versi di Damiani l’immagine dei corpi naufragati in mare, di quelli sterminati sui campi di battaglia, si fondono con i morti di Covid: in una sola pagina si condensa lo sgomento del mondo rispetto a una tranche di realtà che, mentre accadeva, assumeva le tinte fosca di una macabra battaglia. Consolatoria e lapidaria la combinazione di versi che ne suggella il senso:
La loro vita è incisa nel cimitero del tempo
a memoria perenne, e la loro tomba è un altare.
E proprio la suggestione della fine consente la variazione di tono e senso che dolcemente lascia transitare il lettore alla seconda sezione del testo, che declina verso una dimensione onirica dell’eros:
E questo canto
E questo canto
E questo canto, amore mio, di cicale
sotto il sole di luglio, in una campagna italiana,
cielo azzurro e poche nuvole, piccole,
odore forte di rosmarino e ginestre
e questo canto pazzo che non si ferma
nell’aria bianca bruciata
e noi, io e te, sotto questi pini
alziamo i calici e brindiamo, silenziosi,
tu vestita come una dea, con lunghe ciocche annodate
e perle tra i capelli,
là sulla collina il nostro capanno di legno
e giù lo scoglio dove passo tutte le notti
a piangere guardando il mare.
Come nella miglior tradizione classica, il nesso amore/ morte sembra riassumersi nella transizione da una sequenza iliadica a quella odisseica: dalla coralità delle pagine precedenti, all’io/tu della sezione lirica il Nostro sceglie di dare una forma nuova, delicatamente allusiva, ad alcuni tra i più suggestivi temi della tradizione omerica diffusi in una modalità lirica mediterranea che fa del paesaggio la sua sostanza prima e sceglie di concentrare in una dimora solitaria su un’isola vagante il senso di un tempo perenne, in cui fluiscono morbide le stagioni della vita e il suo lento estenuarsi. Quasi in una biografia poetica dell’essere, nelle ultime pagine la maturità della vita come dell’eros reclamano uno spazio sovrano: ne è garanzia e promessa, il vagheggiamento del mito di Filemone e Bauci, incastonato tra Guarda come brillano le onde e La vecchiaia di Ulisse. È in quest’ultima sezione che appaiono più visibili o espliciti gli scorci di un epos proiettato nella dimensione di un recupero nostalgico e inquieto: appaiono solitarie e dominanti, nella formula appena accennata del ritratto, Elena e Penelope, ma soprattutto Aiace, che attende per un ultimo e riconciliante incontro Ulisse:
Oggi, Aiace, ti sei seduto accanto a me
e abbiamo parlato a lungo.
Non so se la tua immagine era vera, o vano sogno,
l’onda marina accompagnava i nostri discorsi.
Delle nostre avventure, del passato non abbiamo parlato
– né tu né io rimpiangevamo il passato –,
delle armi famose e della contesa meno che meno
– le armi che poi alla fine il mare si era preso –,
ma – due vecchi un po’ rimbambiti – ci raccontavamo delle passeggiate
che io fuori, all’aperto, nei boschi della mia isola,
tu nei sentieri bui dell’Ade, ambedue facevamo.
Tu, Aiace, volevi sapere se adesso, che è ottobre,
sono già diventate rosse le foglie degli aceri,
io volevo sapere quali gemme fioriscono,
quali pepite splendono lungo i sentieri dell’Ade.
Mentre stavi parlando mi sono voltato
verso di te e la tua immagine era sparita.
A un tratto ho visto le armi di Achille in fondo al mare
ricoperte di alghe, tutte arrugginite.
Qualcuno le troverà, ho pensato, o forse nessuno mai le ritroverà.
Camminando sotto gli aceri ho sentito i tuoi passi
nel rumore delle foglie secche sotto i miei passi.
Ulisse non sa che le armi di Achille non sono più in fondo al mare, ma sospinte dalle onde sono tornate a consolare il sepolcro stanco dell’eroe immenso, seguendo la rotta tracciata dal tempo e dai versi come racconta Damiani, riannodando il suo canto non solo alla tradizione poi confluita negli epigrammi dell’Antologia Greca e Palatina2, ma anche ai foscoliani Sepolcri3 e all’Ajace di Vincenzo Cardarelli4.
Tu Aiace le sentisti e gioisti profondamente nel cuore,
ora non eri più solo, non più triste e adirato
ti aggiravi per i boschetti dell’Ade,
ora tornò il sorriso sulle tue labbra livide,
ed il cuore si rasserenò,
la sabbia coprì le armi quel tanto
che potevano rimanere nascoste per sempre,
il tumulo di pietre fu ricoperto dal vento
e nel passare dei secoli diventò indistinguibile
da qualsiasi altra collinetta o asperità del terreno.
Ma sotto Aiace era contento e gioiva in cuor suo,
le armi che tanto aveva desiderato
il mare gliele aveva portate alla fine,
eternamente giovani brillavano sotto la terra
sotto i suoi occhi, accanto alle sue ossa,
lontano da occhi indiscreti, nessun archeologo
mai le avrebbe più ritrovate,
sarebbero rimaste per sempre vicino a lui
nel buio della notte, a consolarlo per sempre.
1 In collaborazione con Fondazione Toti Scialoja, Associazione Frascati Poesia, La Nuova Pesa.
2 Oltre ai riferimenti citati, il mito delle armi di Aiace è anche in Apollodoro, Strabone, Pausania, Fozio e, naturalmente, in Quinto Smirneo.
3 Vv. 215-225: “E se il piloto ti drizzò l’antenna/ oltre l’isole egèe, d’antichi fatti/ certo udisti suonar dell’Ellesponto/ i liti, e la marea mugghiar portando/ alle prode retèe l’armi d’Achille/ sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi/ giusta di glorie dispensiera è morte;/ né senno astuto né favor di regi/ all’Itaco le spoglie ardue serbava,/ ché alla poppa raminga le ritolse/ l’onda incitata dagl’inferni Dei.
4 Vv. 45- 55: “E i Greci ti negarono quel premio/a cui tu ambivi:/l’armi d’Achille. Un maestro d’inganni/te le strappò. Ma in mare/costui le perse. E il flutto pietoso,/il mutevole flutto, più sagace/dell’umano giudizio, più costante della fortuna,/sul tuo tumulo alfine le depose./Pace all’anima tua infera, Ajace”.