Primo tempo per il commiato
Io vivo sull’altra riva del fiume
ora. Sto, non come tu stai – ai piedi
verdi della collina
il ponte di pietra antica, anche il ponte
– che ci portava i sabati
di festa, le bancarelle vanesie –
è crollato. l’amore non ha peso
– dicevi – ha il passo lieve della foglia
ma il ponte è crollato. Senza motivo
non l’alluvione o la frana, il sisma
si è dissolto così,
svaporato come fosse un covone
di fieno offerto alla tempesta, al lampo
come la luce d’un qualsiasi vespro.
Così, come un improvviso niente
un respiro, la vita
Secondo tempo per il commiato
Non so come fluisca il tempo
se esista
là dove tu ora sei
se sei
qui i merli nel giardino
dei tuoi ultimi passi
rinnovano i canti,
le infinite varianze
il loro, anche il loro
tempo breve
Terzo tempo per il commiato
Ma io non sono partita all’improvviso
e quando ho cercato di dirti muoio
la parola era fango
e quando ho pensato muoio, non andare via
il pensiero non ha avuto forza d’essere voce
così ti sei allontanato,
nell’ora
e quando tu, tornando, hai sussurrato al freddo
che nell’orecchio mi assaliva
non avere paura
ora puoi di nuovo camminare
e forse volare
l’albero di ciliegio stava fiorendo, perché era dicembre
e là dove mi stavo incamminando
anche a dicembre fioriscono i ciliegi.
Quando per la prima volta ho incontrato queste poesie, tratte da Sull’improvviso, di Alfredo Rienzi, sono rimasto folgorato, Ho pensato che tre poesie così sono già un intero libro, forse sono molto di più. La morte per me è la questione delle questioni, è una vita dentro la vita. Indagare la morte è forse una delle poche possibilità che abbiamo per dare davvero un senso alle nostre esistenze. Senza questa indagine, poi, fare i conti con la morte, che arriva per tutte e tutti noi inesorabilmente, quasi sempre prima portando via qualcuna, qualcuno dei nostri cari, diventa mostruoso. Vivere come non ci fosse, e poi incontrarla all’improvviso, vedere che è dappertutto, che altre e altri prima di noi ci hanno fatto i conti. C’è una storia della tradizione Buddista, di una madre che ha perso il suo figlioletto di appena un anno, e si aggira per il villaggio con il corpicino morto del figlio, in cerca di qualcuno che possa rianimarlo. Nel villaggio nessuno dà ascolto alla donna, la prendono per pazza. Finché un signore le dice “il Buddha sicuramente ha quello che fa per lei”. Allora la donna va dal Buddha, che sta meditando. Lei attende un attimo e il Buddha le chiede cosa le serve. “Una medicina”, risponde la donna “che faccia tornare in vita il mio piccoletto”. Il Buddha le dice che conosce il rimedio che fa per lei, e le chiede di procuragli dei semi di senape, che però devono venire da chi non ha mai perduto né un parente, né un figlio, né un amico, né un genitore, né il coniuge. Lei parte, torna al villaggio e va a chiedere di casa in casa. E piano piano si accorge che nessuno ha le caratteristiche richieste dal Buddha, che tutte e tutti hanno incontrato la morte. “I morti sono molto più numerosi dei vivi”, le dice qualcuno. Allora comprende che la morte è parte della vita, che non sono l’una l’opposto dell’altra, che sono invece l’una dentro l’altra, due luccichii dello stesso bagliore. Sente anche nascere nel suo cuore una convinzione: l’amore che prova per suo figlio, quello è ancora lì, presente, vivo, acceso, infuocato, e quell’amore nulla al mondo potrà portarlo via. Percepisce la grande tristezza dell’abbandono, il distacco dal corpo del piccolo, la disperazione di non poterlo vedere crescere, innamorarsi, ma anche che in un modo misterioso e indicibile, suo figlio è ancora con lei, in un’altra forma, in un altro modo. Che luoghi forse inaccessibili del nostro cuore, si possono aprire anche grazie a un dolore come quello. Che ci sono regni che non possiamo vedere, ma possiamo percepire, da dove giungono grazie inaspettate. E coglie anche come la morte ci faccia tutte e tutti davvero fratelli e sorelle, questo destino comune che fa di noi i figli dello stesso amore, della stessa sorgente.
Queste tre poesie di Alfredo, che ringrazio con tutto il cuore per avere avuto il coraggio e la devozione di scriverle, aprono infiniti spazi. Questa per me è la poesia necessaria, che indaga i misteri, che ci permette di varcare delle soglie altrimenti inviolabili. E quei versi finali, dove ha voce colei che è morta (perché la poesia sa compiere questi e altri prodigi) sono l’annuncio della bellezza: là dove mi stavo incamminando / anche a dicembre fioriscono i ciliegi.
Perché morire è fiorire. Fiorire per sempre.
Massimiliano Bardotti