Poesie del tempo ordinario – Luigi Aliprandi


L’ultima opera di Luigi Aliprandi, Poesie del tempo ordinario (prefazione di Alberto Bertoni, Samuele Editore 2023) già dai primi testi manifesta una solida compattezza concettuale.
Una costante compenetrazione tra Eros e Thanatos innerva le poesie, attraverso il continuo slittamento tra lo slancio amoroso privato e la percezione solida di un dolore comune, plurale.
È potente la tensione – e la reciproca trazione – tra il concetto di spreco esistenziale e la pulsione umana dell’essere all’altezza di costrutti etici sempre più pretenziosi e fittizi, perfino posticci, benché talvolta autoimposti.

L’approccio erotico, nella sua estetica essenziale (si leggano i versi “le solenni strategie/della carne”) delinea gli imperativi e le tattiche posti in essere nelle società, li anticipa e li svolge in un discorso indefinibile che puntualizza ciò che è già avvenuto, lo rende in forma di racconto quasi oracolare.

Il tempo si presenta come costante gnoseologica dotata un valore conglomerante per l’umanità, le cui aspirazioni verso l’alto e il basso, il sé e l’estraneo, non possono che risentire delle ere che avanzano e delle stagioni che si alternano in senso storico ed emotivo, ma anche fisico, empirico. La loro traccia è infinitesimale, eppure nevralgica: “Può, voglio dire, un susseguirsi di ore/in altre ore, predisporsi in perfezione/temporale e farsi tempo dell’anima e del cuore?”.

Le estemporanee incursioni lessicali dal linguaggio parlato comune rendono lo slancio del dettato duramente ironico. Insieme a rime occasionali ed assonanze riproducono un ritmo controllato, incline al motto interiore o, al contrario, all’afflato composto di un diario non del tutto privato.

I riferimenti religiosi, resi in una dimensione linguistica di senso metaforico, si innestano nel tessuto dei versi con una naturalità istintiva, preservandone l’impronta intimistica pur nella scelta di nominare occorrenze sacre di diffusa conoscenza: “è nel lenzuolo che di te si sazia/mia sola sindone ingigliata di grazia”.

La dualità tra lingua e tempo risulta essere un punto di riferimento ermeneutico dell’opera, un’alternativa creativa e rifondativa della realtà stessa.

Perfino i segni che gli eventi lasciano nel mondo non rappresentano più delle guide attendibili, perforano la coscienza senza un senso preciso e praticabile. Quale linea all’uomo è dato seguire?

Anche amore (“L’amore è solamente/questo, un depensarsi fino/allo stordimento, un appropriarsi/del tempo proprio”) e guerra sembrano due estremi che tendono a unirsi, due verità congrue, due aspetti dello stesso fenomeno: “attardata in te stessa/come s’attarda l’ombra negli incavi/ad attendere un segnale nella ressa/del sangue e del sogno degli schiavi/in una terra che mai ti fu promessa”.

La sezione dedicata alle stanze trasfigura la materialità in percezione in una visione mai esattamente mimetica (e qui il contrasto con la sezione Imitazione è consapevolmente provocatorio), e appronta una lettura etico-surreale della realtà, come se spazi e luoghi fisici parlassero delle persone che le vivono, cioè che le rendono vive.

Ancora una volta, le rime baciate o alternate imprimono un andamento ironico che consente alle tematiche di emergere con naturalezza e ai testi di dispiegarsi appieno nel suono.

Alcune prose brevi continuano il discorso dei versi, lasciano che la speranza “sul conforto di ogni possibile notte” diventi una opportunità da cogliere con il dovuto circospetto stupore.

Il confronto tra la sfera privata e quella collettiva appare sempre più incalzante attraverso la descrizione dei corpi e dei loro movimenti, completamente assorbiti dalla normalità dei gesti quotidiani, delle pulsioni fondamentali, di quelle “pubbliche liturgie e privatissimi cortei” di cui è piena la vita di ogni giorno.

Brevi e travolgenti scene erotiche lasciano presagire la centralità del corpo nella sua relazionalità con l’altro, di nerudiana ispirazione (ma senza l’afflato prettamente politico di certa poesia sudamericana), nella profonda civiltà del tocco, nella simbologia catartica del gesto: “Il liquame che ti sgorga dalle cosce/se vi affondo la faccia e la mia sete/mio stagno d’incredibili minacce/mia pesca mia tempesta mia rete”.

Qualche dettaglio scabroso accende l’accorta e accorata furia del verso, ne compatta la prosodia prosastica lì dove gli slanci lirici sono annidati tra le sorprese di un linguaggio che unisce, pur non essendo caratteristiche sempre separate, eleganza e contemporaneità.

Nel raccordo tra testi e sezioni del libro, l’opera si presenta, come afferma Bertoni nella prefazione, come “un’esatta sequenza di Poesie del tempo ordinario: che poi sono tutt’altro che foriere di un tempo “comune” o “qualunque” o pieno di eventi ripetitivi e scontati”, per sottolineare come è proprio nella capacità di attraversare l’ordinario che si può saggiare l’extra-ordinarietà dell’esistenza intima e di quella collettiva, attraverso un senso panico che congloba storia e sentimenti, luoghi e parti del corpo, gesti e gesta.

Gisella Blanco

 
 
 
 
Ad implorati miei giorni meno duri
mandavo cenni e scaglie di preghiere
auspicavo chissà quali futuri
cortocircuiti al chiuso delle sere
al chiuso chiostro compiuto e vedovile
di un me stesso già rimpianto e rassegnato
per rappresaglie interne mi buttavo
sulle aderenze ardenti dello stile.
 
 
 
 
 
 
L’amore è solamente
questo, un depensarsi fino
allo stordimento, un appropriarsi
del tempo proprio
nel suo sfarsi – o siete con me
o contro voi stessi.
 
 
 
 
 
 
tra le bruciature del libro decifravi
versi di Seferis, attardata in te stessa
come s’attarda l’ombra negli incavi
ad attendere un segnale nella ressa
del sangue e del sogno degli schiavi
in una terra che mai ti fu promessa
ma minacciata se tu colpevolmente
incarnavi nel tuo doppio l’innocente.
 
 
 
 
 
 
Stanza Prima
 
Veglia dormendo di sorriso in pena
irraggiunta cattedrale irreligiosa
da sazio digiuno a libertà in catena
da carezze di ruggine a strazio di mimosa
piissima avventura in domestico disagio
ultima mia salute, mia zattera e naufragio.
 
 
 
 
 
 
Il liquame che ti sgorga dalle cosce
se vi affondo la faccia e la mia sete
mio stagno d’incredibili minacce
mia pesca mia tempesta mia rete
testimone di lunghissime venute
sulla mensa del corpo che ho da darti
ai battesimi che do nel nominarti
nato nel mio nome ma l’eresia m’induce
ad essere io solo il tuo Battista
a testimoniare io solo la tua luce.
 
 
 
 
 
 
Sia benedetto questo mal di lingua
perchè lo so io cosa significa
voglia che ad altra voglia non s’estingua
di leccarti con l’anima la fica.