Poesie 1923-1982 – Giorgio Vigolo

All’interno della collana «novecento/duemila» diretta da Diego Bertelli e Raoul Bruni, edita dai tipi de Le Lettere, ha fatto la sua comparsa a novembre 2023 una antologia che attraversa l’intera opera poetica, Poesie 1923-1982, del romano Giorgio Vigolo (3 dicembre 1894 – 9 gennaio 1983), un’assente ingiustificato e da tempo nelle pubblicazioni e riedizioni poetiche dell’editoria italiana. La curatela è di Andrea Gialloreto, professore di Letteratura contemporanea in servizio all’Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara.

A causare l’eclissi della fama di Giorgio Vigolo, spiega Gialloreto, «hanno contribuito la contiguità con maestri di […] levatura [quali Ungaretti, Sbarbaro, Barile, Cardarelli, Rebora, Onofri, Jahier, Saba] e soprattutto la sottaciuta ma accesa rivalità con il maggiore poeta del Novecento»1, Eugenio Montale. Con Montale, sottolinea Gialloreto, Vigolo ha in comune simili esperienze di studi: «gli studi musicali, la rimeditazione dei modelli di Pascoli e d’Annunzio, l’apertura agli influssi delle letterature europee» (Figura in melodia…, cit. a p. 5), con la netta differenza che in Vigolo ha continuato ad agire sottotraccia nei suoi versi l’amore primigenio per Francesco Petrarca, di cui l’enciclopedia Treccani ravvisa un forte interesse sin dai primissimi studi2. Si confrontino gli endecasillabi di una quartina della prima raccolta (“Erebo”, da Conclave dei sogni, pag. 45) e quelli di una stanza tratta dall’ultima raccolta (“La perfetta armonia, la viva luce”, da Poesie religiose e altre inedite, p. 177):

*
Il mondo mi si capovolge dentro
a vortice. La notte alta e ventosa,
le nubi immote e la fuggente luna
s’arrovesciano in fondo a questo pozzo.
[…]

*
La perfetta armonia, la viva luce,
operante nel mondo che m’attornia,
d’alberi, lago e monti, l’onda d’oro
che trabocca all’azzurro in esultante
estuare di odori, – fanno un coro
a cui s’intona il mio essere e prende
nuova linfa alle fonti della vita.
[…]

Il paragone è evidente. Certo, la lingua di Vigolo è sfrondata dalle caratteristiche linguistiche petrarchesche, le molte parole apocopate o sincopate presenti nel Canzoniere, ma la letterarietà, ovvero l’abilità linguistica operante laddove ispirazione e immaginazione sono deboli, c’è tutta. Vigolo non si serve della tradizione letteraria italiana al fine di rielaborarla e superarla in un personale percorso espressivo, salvo in casi che vedremo più in là, si limita a usarne le vesti per dire «di un dolore connaturato alla condizione umana» (Figura in melodia…, cit. a pag. 21).

A fianco di questo dolore quasi cantato, la ricerca gnostica di Vigolo vira tutta alla rincorsa di quella che in più modi chiama la «contemplata fonte» (“Alla sera”, da Conclave dei sogni, pag. 48), una reminiscenza di cui l’anima, per il poeta romano, trattiene delle pennellate che si fanno a momenti più brillanti quando sensi e intelletto, nell’incontro con la realtà, dialogano con simpatia maieutica risvegliando verità sopite. Si legga la seguente poesia (“xi”, da L’eremita di Roma, pag. 83):

Al foro Traiano
nell’assolato meriggio
la chiesa ottagonale
m’accoglie limpida e vuota,
tutta per me, ritiro
d’anacoreta su monte:
guardando nella cupola
mi sento respirato.

Qui venni fanciullo: i templi
mi davano allora spavento,
ora tanta pace
e interna luce. Allora
mi parevano paurose grotte:
oggi conchiglie, e vi gira
un murmure d’eterno.

Un esempio che, contrariamente alla letterarietà diffusa nel corpus vigoliano, si libera dell’ombra dei maestri per affermare la propria unicità di visione e sentimento. L’intera antologia suggella variamente questi momenti (alle pp. 44-48-50-51-63-75-87-107-112-118-125-126-150-152-171), i quali offrono al lettore una sincera rivelazione del «sé più intimo e traumatizzato [del poeta], come un coeur mis à nu» (Figura in melodia…, cit. a pag. 23), efficaci nell’esprimere le affezioni dell’uomo-scrittore alla ricerca di quella «felicità originaria» (“Le foglie”, da Conclave dei sogni, pag. 51). Una ricerca che sa orientare il lettore verso l’identificazione della poetica di Giorgio Vigolo, il che gli permette di inserirsi con singolarità nel novero dei poeti italiani del Novecento.

Fabio Barone

 
 
 
 
Albero conoscente
 
Il cuore ingombro di relitti amari
pesa nel petto come grave mola
e àncora alla terra i favolosi
pensieri che s’immergono nel vento
con assetate cime avide d’aria.
Le passioni mi radicano al suolo,
contrappeso di lutto, esse, all’aereo
sorger d’alate respiranti foglie.
Ma così s’equilibra in me l’arcano
albero conoscente; e, se la luce
beve dall’aria, un più profondo filtro
trae dalla terra e lo nutrisce a morte.
 
 
 
 
 
 
v.
 
L’amabile pittore che dipinse
a marine e castelli le pareti
di questa bettola oscura nei Borghi,
quanta favola finse
ai bevitori assorti,
da tanti secoli che brilla allo sguardo
dei felici in questo buco d’ombra!
Ma più luce vi mise egli sui muri
bui che un sole di maggio; egli l’intrise
della sua gioia ad altre gioie incontro.
Io ti saluto,
pittore antico e popolare: un raggio
del tuo sole lontano anche a me giunse.
 
 
 
 
 
 
Grido alla madre
 
Madre, mia madre
dove sei nel lontano?
dove ti sei sperduta dopo la morte,
che più non mi mandi la tua immagine,
e deserti sono i miei sogni,
ma meno della mia vita?
Io sto quaggiù lo vedi in qualche pericolo:
strani mostri mi fanno le cacce,
girano intorno intorno alla poca rupe.
 
Madre, se esisti ancora
in qualche punto dell’universo
o sei tornata alla bontà indivisa
da cui ti staccasti nel nascere,
fammi sentire
diminuita la mia solitudine,
schiariscimi gli occhi,
che io giunga a rivederti
nell’alto del tuo sereno,
 
e smetta di scorgere
al tuo posto le ambigue
larve che ti nascondono
al figlio.
 
 

 
 
 
 

1 “Figura in melodia: diagramma di una poesia tra asintoto ed esenzione”, in Giorgio Vigolo, Poesie 1923-1982, Le Lettere, Firenze 2023, pag. 5.

2 Cristiano Spila, VIGOLO, Giorgio, pagina consultata il 07/03/2024.