foto di Dino Ignani
POESIA A CONFRONTO: Orfismi
PINDARO, RILKE, DE ANGELIS, CENI
Il mito di Orfeo è alla base di una lunga tradizione poetica che, partendo dall’antichità, giunge fino ai nostri giorni, ispirando quel filone della poesia a cui generalmente si fa riferimento con il nome di “poesia orfica” o “orfismo” in senso lato. Per quanto ogni categoria, in poesia come nella vita, non sia tale da rappresentare nel suo insieme le specificità del singolo, irriducibili a qualunque etichetta, cercheremo oggi di confrontare fra di loro testi riconducibili a questa matrice.
Una delle prime testimonianze scritte riconducibile all’orfismo è il frammento di Pindaro che riportiamo, in cui si mette bene in evidenza il concetto di “un’immagine della vita”, concessa dagli dèi, che è capace di persistere oltre la soglia della morte; la percezione di questa “immagine” più profonda può essere esperita solo mediante un’esperienza iniziatica che può avvenire, ad esempio, con il sogno, quando ci si spossessa della dimensione corporale. Sono questi i principi che stanno alla base di un’idea dell’ispirazione che nasce da un altrove, si esprime per una strada non razionale, ma istintiva, originaria, spirituale. Questo porta all’idea di una parola oscura e ambigua all’apparenza, di ardua decifrazione e lontana dalla comunicabilità, ma l’unica capace di mettere in contatto la sfera del soggetto finito e determinato con lo spazio dell’altrove, della spiritualità che lo preordina e assiste, in cui ne è racchiusa l’essenza non visibile.
Fra i risultati più alti di questa poesia ci sono, in epoca moderna, “I sonetti a Orfeo” di Rilke, da cui riportiamo un testo in traduzione. L’incontro iniziatico con la parola avviene ricongiungendosi a una lontananza perduta, “nella tramatura d’oscuri ceppi di campana / abbandonati”, in una “notte della dismisura” e presuppone una trasformazione completa, una “metamorfosi” appunto, che consenta di attingere alla forza misteriosa che ordina e presiede, che chiede di essere accolta. Solo in questo modo la “terrestrità” può riappropriarsi di questa sua dimensione perduta, quella autentica.
L’uso di una parola ricca di ellissi e irta nella sua decifrazione caratterizza la poesia del primo De Angelis, in particolare la sua celeberrima raccolta “Millimetri”. Come si nota dal testo proposto, avviene un affastellamento, per via analogica e associativa, di immagini potenti e inconsuete (“calendario in / sangue di cicogne”, “spuntano / dal battesimo i tiratori scelti”, “alzati di scatto e mortali”) che procedono dall’interiorità e dall’inconscio, capaci di obbedire solo alla loro ragione d’essere sulla pagina. La poesia si offre senza intermediazione, mettendo a nudo la fragilità dell’uomo, esponendosi alla necessità di un destino che è presente in lei e prende forma.
Dal tono oracolare e profetico i versi di Ceni che intitola la raccolta da cui è tratto il testo all’idea di un conflitto che non può aver fine, in cui l’uomo si confronta con sé stesso, con il mondo, con le zone d’ombra che lo attorniano. La poesia proposta, ambientata in uno spazio vegetale desolato e oscuro, è dominata dalla figura misteriosa di una “femmina” che lancia un suo “rauco grido”, rivendica la necessità del suo “dardo canoro”: sembra quasi di assistere al grido della poesia che rivendica la sua ragione d’essere, sapendosi peraltro inascoltata, anzi pronta proprio per questo a nascondersi e celarsi altrove “per deludere coloro che la visitassero”. Domina quindi l’idea di una parola necessaria e non rintracciabile, sfuggente nel momento stesso in cui cerca di dirsi, perché rivelarsi corrisponde a abiurare.
Fabrizio Bregoli
PINDARO
(V secolo a.C.)
Il corpo di tutti obbedisce alla morte possente,
e poi rimane ancora vivente un’immagine della vita, poiché solo questa
viene dagli dèi: essa dorme mentre le membra agiscono, ma in molti sogni
mostra ai dormienti ciò che è furtivamente destinato di piacere e sofferenza.
(Frammento 131 b, Traduzione di Giorgio Colli, in La sapienza greca vol.1. Milano, Adelphi, 2005, p.127)
RAINER MARIA RILKE
(Da Sonetti a Orfeo, 1922)
Silenzioso amico di molte lontananze, senti,
come il tuo respiro ancor lo spazio accresce.
Nella tramatura d’oscuri ceppi di campana
abbandonati e risuona. Ciò che ti consuma,
diventa forza per questo nutrimento.
Nella metamorfosi entra ed esci.
Qual è in te l’esperienza più dolente?
Se ti è amaro il bere, diventa vino.
Sii in questa notte della dismisura
magica forza all’incrocio dei tuoi sensi,
senso del loro incontro strano.
E se terrestrità ti ha dimenticato,
dì alla terra immota: io scorro.
Alla rapida acqua parla: io sono.
(Da I sonetti a Orfeo, Feltrinelli, 2008, traduzione di F. Rella)
MILO DE ANGELIS
(da Millimetri, Einaudi, 1983)
Quando le mani, a mezzaluna,
ricevono un calendario in
sangue di cicogne,
ogni uomo sparge sul fazzoletto
spazio e ferro: spuntano
dal battesimo i tiratori scelti
per una fame che non vuole pezzetti
e noi a valle con una pietra in pugno
alzati di scatto e mortali.
La Redazione di Laboratori Poesia fa i propri complimenti a Milo De Angelis per la vittoria al prestigioso Premio Saba, 2022.
ALESSANDRO CENI
(Da Combattimento ininterrotto, Effigie, 2015)
Sopra sovrassalati spazi
e di là da dune,
dove ardeidi tantali e cesene
rugolano le spoglie chitinose degli insetti
in repenti cretti adusti di ghiareti o
sbrezzano in semplici depressioni del terreno
le indifese coppe colme di niente dei loro nidi o
sventolano sulle darsene le sagome di cartone dipinto –
straniera e solitaria
silvide oscura
sottesa al magro verde di uno sconosciuto –
la femmina fa udire un rauco grido di richiesta:
Poiché costretta nell’arena del canto
debbo accovacciarmi
sul pavimento della camera che mi accoglie –
la mente altrove e lo spirito sempre –
tra resti di pesci, rigurgiti e feci,
là dove, mascherato ed anonimo,
è più altissimo il mio dardo canoro
e dirti forte e chiaro:
Non disperarti per questa bambina,
qui è la sua virtù, qui è il suo vizio,
qui la sua ignoranza, la sua conoscenza,
e i suoi complici sono se stessa –
la vera camera ha l’entrata occultata,
l’altra (la prima) resta vuota
per deludere coloro che la visitassero.