POESIA A CONFRONTO: Le rime
CARDUCCI, CAPRONI, MONTALE, SANGUINETI
La rima è da sempre, combinata con la metrica, uno degli elementi distintivi della poesia, uno dei suoi caratteri identitari. A partire soprattutto dal primo Novecento con la progressiva diffusione del verso libero e l’allontanamento dalle forme chiuse, la presenza della rima si è sempre più diradata; anzi, paradossalmente, la rima tende a essere associata a talune forme di “poetese”, cioè di poesia finta o artefatta.
Giosuè Carducci dedica alla rima l’apertura delle sue “Rime nuove” con un componimento formato da agili sestine in cui avviene un’alternanza musicale fra ottonari e trisillabi con i versi 1,2 e 4,5 a coppie in rima baciata. Rivendicando l’origine popolare della rima, nata dal canto, passando attraverso la tradizione trobadorica ed epico-cavalleresca fino alla poesia di Dante, la composizione è una sorta di viaggio attraverso i secoli che hanno visto la gloria della rima, a ben diritto indicata come “del latin metro reina” e ancora “cura e onor de’ padri miei”, capace di stupire sempre, anche con il più consumato cavallo di battaglia: “fiore” / “amore”, a cui Carducci stesso non si sente di rinunciare.
Caproni, da molti indicato come poeta anti-novecentesco, rivendica la rima in totale controtendenza con molti suoi contemporanei; il ricorso a una forma vicina alla canzonetta è un espediente per contenere il dolore causato dalla mancanza, dalla perdita della madre.
Possiamo quindi leggere una poesia caratterizzata dalla leggerezza, mista a una sottile malinconia: “le rime chiare” si associano a una “eleganza povera”, ma “schietta” della dizione. Tutti questi suoni chiari, “orecchiabili”, sono tutt’altro che “labili”, ma il lettore diventa partecipe della loro grazia, parte dell’affettuosa rievocazione della madre condotta dall’autore.
Di tutt’altra posizione il Montale di Satura, così colloquialmente dispettoso, pungente. Da subito l’accostamento della rima alle “dame di San Vicenzo” è sferzante; il taglio ironico serve però ad ammettere uno spazio, per quanto in “contrabbando”, nel quale la rima continua a intrufolarsi, a durare nonostante. Le rime sono vecchie bigotte (“pinzochere”) di cui è arduo sbarazzarsi, “bussano ancora e sono sempre quelle”, riappaiono quando meno te l’aspetti.
E così avviene anche per un poeta sperimentale, neoavanguardistico, come Sanguineti che nel suo erotosonetto obbedisce diligentemente alle regole formali della tradizione, addirittura nella forma di un sonetto con acrostico (SANGUINETI AMAT) in cui ogni verso è allitterante nella consonante iniziale. Le rime usate dall’autore sono tuttavia irriverenti: “sonetto” / “ghetto” / “insetto”; “inferno” / “materno” / “terno”; scardinano dall’interno il rigore petrarchista. Tutto il linguaggio amoroso che si impiega è sopra le righe, ironicamente barocco: “infarcito mio infarto” (con iterazione del suffisso inf-), “aurora di aghi ardenti” (ossimoro inconsueto), “muta medusa”, “umiliato unicorno” e “arida aspide” (riferimenti zoologici stranianti), fino all’allitterante finale “Tremo con te, tremendo, tardo terno”, in cui l’amore assume la forma del gioco d’azzardo.
Fabrizio Bregoli
GIOSUÈ CARDUCCI
(da Rime Nuove – 1887)
ALLA RIMA
Ave, o rima! Con bell’arte
Su le carte
Te persegue il trovadore;
Ma tu brilli, tu scintilli,
Tu zampilli,
su del popolo dal cuore.
O scoccata tra due baci
Ne i rapaci
Volgimenti de la danza,
Come accordi ne’ due giri
Due sospiri,
Di memoria e di speranza!
Come lieta risonasti
Su da i vasti
Petti al vespero sereno,
Quando il piè de’ mietitori
In tre cori
Con tre note urtò il terreno!
Come orribile su’ vènti
De’ vincenti
Tu ruggisti le virtudi,
Mentre l’aste sanguinose
Fragorose
Percoteano i ferrei scudi!
Sgretolar sott’esso il brando
Di Rolando
Tu sentisti Roncisvalle,
E soffiando nel gran corno
Notte e giorno
Del gran nome empi la valle.
Poi t’afferri a la criniera
Irta e nera
Di Babieca che galoppa,
E del Cid tra i gonfaloni
Balda intoni
La romanza in su la groppa.
Poi del Rodano a la bella
Onda snella
Dài la chioma polverosa,
E disfidi i rusignoli
Dolci e soli
Ne i verzieri di Tolosa.
Ecco, in poppa del battello
Di Rudello
Tu d’amor la vela hai messa,
Ed il bacio del morente
Rechi ardente
Su le labbra a la contessa.
Torna, torna: ad altri liti
Altri inviti
Ti fa Dante austero e pio;
Ei con te scende a l’inferno
E l’eterno
Monte gira e vola a Dio.
Ave, o bella imperatrice,
O felice
Del latin metro reina!
Un ribelle ti saluta
Combattuta,
E a te libero s’inchina.
Cura e onor de’ padri miei,
Tu mi sei
Como lor sacra e diletta.
Ave, o rima: e dammi un fiore
Per l’amore,
E per l’odio una saetta.
GIORGIO CAPRONI
(da Il seme del piangere – Garzanti, 1959)
PER LEI
Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era cosí schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.
EUGENIO MONTALE
(da Satura, Mondadori – 1971)
LE RIME
Le rime sono più noiose delle
dame di San Vincenzo: battono alla porta
e insistono. Respingerle è impossibile
e purché stiano fuori si sopportano.
Il poeta decente le allontana
(le rime), le nasconde, bara, tenta
il contrabbando. Ma le pinzochere ardono
di zelo e prima o poi (rime e vecchiarde)
bussano ancora e sono sempre quelle.
EDOARDO SANGUINETI
(Da Senzatitolo – Feltrinelli, 1992)
EROTOSONETTO
Se sa sedurti soltanto un sonetto,
Archetipo d’amaro amore assente,
Nasconderò nei tuoi nomi il mio niente,
Golfo mio, mia girandola, mio ghetto:
Umiliato unicorno, unico e urgente,
Inciderò in te impronte, intimo insetto,
Nodo dei nodi, nudo nervosetto,
Enfasi estrema, epigramma emergente:
Tenera in tutto, torre di tormenti,
Infarcito mio infarto, idolo, inferno,
Apriti a me, tu, aurora di aghi ardenti:
Muta medusa, muscolo materno,
Ascoltami, arida aspide, e acconsenti:
Tremo con te, tremendo, tardo terno.