POESIA A CONFRONTO: La neve

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POESIA A CONFRONTO: La neve
ORAZIO, NEGRI, STEVENS, ZANZOTTO

 
 

Elemento caratteristico del nostro inverno e elemento dal valore fortemente simbolico che si associa soprattutto al suo colore e alla sua consistenza al tatto, la neve è uno dei motivi paesaggistici e naturali più ricorrenti nella poesia, a partire dalla classicità.

Infatti iniziamo con la celebre ode di Orazio che ha come incipit la descrizione del monte Soratte ricoperto dalla “neve alta” che strema gli alberi e che implacabile domina nel gelo. Quello scorcio naturale, unito all’altro del mare in tempesta solcato dalla irruenza dei venti, è lo spunto, come spesso in Orazio, per una riflessione sulla condizione effimera dell’esistenza e, di conseguenza, sulla necessità di vivere la vita nella sua pienezza, senza timore: ritorna cioè il noto tema del “carpe diem” qui declinato con una voluttuosità e una sensualità particolari, grazie all’attenzione al dettaglio visivo, al gusto della “miniatura”. Si veda in particolare la chiusa così allusivamente delicata, capace di imprimere con efficacia l’idea del “gioco amoroso” come rimedio al “male di vivere”, all’assillo di ciò che potrebbe accadere domani.

Di compostezza classica, con uno sguardo rivolto più al passato che alla nuova temperie novecentesca, è la poesia di Ada Negri, delicatamente musicale e con un’aria da canzonetta. In ogni sostantivo e aggettivo si percepisce la grazia con cui la neve cade rivestendo di sé il mondo: il ritmo disteso, la scelta misurata delle parole, la cadenza gentile di ogni verso bene contribuiscono all’idea di “pace” e di “oblio profondo” che sono i temi salienti del testo. La neve domina completamente la scena, lasciando “indifferente il mondo”, creando uno spazio assoluto di riserbo e di silenzio.

Di impostazione rigorosamente meditativa è la poesia di Wallace Stevens, che induce il lettore a entrare, nel cuore del paesaggio descritto, con una “mente d’inverno”: solo così sarà possibile l’immedesimazione, per il lettore o “l’ascoltatore”, nell’ambiente di gelo netto e definitivo che viene qui rappresentato. La desolazione pervasiva, ribadita in un climax ascendente dettaglio dopo dettaglio, dai “pini incrostati di neve” alla “pena” indotta dal “suono del vento”, è quella del “nudo luogo” in cui riconoscersi, che altro non è se non il traslato del nulla che lo attraversa, che gli dà forma ed è lo stesso nulla per l’uomo, per la natura, per il cosmo nel suo insieme: “il nulla che è”. Avviene così un significativo capovolgimento dell’assunto parmenideo (il non-Essere che è), ma una sostanziale sovrapposizione speculativa con la nuova metafisica esistenzialista (l’angoscia sul precipizio del nulla come punto di ripartenza per la riappropriazione e la manifestazione dell’Essere).

Con il testo di Zanzotto, tratto dalla raccolta epocale “La Beltà”, approdiamo in piena poesia di ricerca, un nuovo percorso sul e dentro il linguaggio, con l’identificazione, tramite il verso, di quei rapporti segreti che legano fra di loro le parole che con le loro desinenze, variazioni, alterazioni, iterazioni si chiamano a raccolta, svelano senso. La poesia sulla “perfezione della neve” è l’occasione per uno “sketch-idea” sul concetto di “neve”, nella molteplicità “plurifonte” delle sue possibili implicazioni, condotto con tecniche di montaggio analogico e semantico, il solo che può condurre nel “brivido del salire, del capire” che è al fondo di ogni esperienza poetica. Tutto punta alla istituzione di un dialogo, sempre problematico, fra uomo e mondo, una poesia “tutto eros, tutto libertà” che si scontra però con il limite intrinseco al linguaggio che obbliga a “riallacciare”, a rientrare nei ranghi, a riannodare il bandolo che si credeva di avere appena dipanato. La sua “ubertà nivale” solo per un attimo appare e poi si richiude a “riccio” in sé, come nel finale categorico: «È tutto, potete andare.», detto o citato da una fonte che è impossibile contestualizzare.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
ORAZIO
 
ODE IX, LIBRO I.
 
Vides ut alta stet nive candidum
Soracte nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto?
 
Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.
 
Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
deproeliantis, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.
 
Quid sit futurum cras, fuge quaerere, et
quem fors dierum cumque dabit, lucro
adpone nec dulcis amores
sperne, puer, neque tu choreas,
 
donec virenti canities abest
morosa. Nunc et Campus et areae
lenesque sub noctem susurri
composita repetantur hora,
 
nunc et latentis proditor intumo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.
 
 
 
 
ODE IX, LIBRO I.
 
Vedi come si erge candido per l’alta neve
il Soratte e già non ne sopportano il peso
i boschi stremati e come per il gelo
acuto i fiumi si sono ghiacciati?
 
Sciogli il freddo mettendo legna
abbondante sul fuoco, Taliarco, e
versa senza risparmio dall’anfora Sabina
il vino invecchiato di quattro anni.
 
Lascia che gli dèi si curino del resto: non appena
loro avranno placato i venti che lottano
sul mare in burrasca, né i cipressi
né i vecchi ontani si agiteranno più.
 
Che cosa accadrà domani, smettila di chiedertelo, e
ogni giorno che il destino ti darà consideralo
solo guadagnato e non sperperare
i dolci amori, ragazzo, né le danze
 
finché da te che ancora sei nel fiore
degli anni starà lontana la deprecabile
canizie. Ora divertiti sul campo Marzio
e per le piazze, cerca appena si fa sera
i sospiri d’amore di cui è giunta l’ora,
 
cercalo ora il sorriso rivelatore, così prezioso,
che la ragazza ti manda da un angolo segreto
e il pegno d’amore strappato al suo braccio
o al dito che vi si oppone così debolmente.
 
 
(traduzione di Fabrizio Bregoli)
 
 
 
 
 
 
ADA NEGRI
(Da Poesie – Mondadori, 1948)
 
CADE LA NEVE
 
Sui campi e sulle strade
silenziosa e lieve
volteggiando, la neve
cade.
Danza la falda bianca
nell’ampio ciel scherzosa,
poi sul terren si posa,
stanca.
In mille immote forme
sui tetti e sui camini
sui cippi e sui giardini,
dorme.
Tutto d’intorno è pace,
chiuso in un oblìo profondo,
indifferente il mondo
tace.
 
 
 
 
 
 
WALLACE STEVENS
(The Snow Man, da The Collected Poems, 1954)
 
THE SNOW MAN
 
One must have a mind of winter
To regard the frost and the boughs
Of the pine-trees crusted with snow;
 
And have been cold a long time
To behold the junipers shagged with ice,
The spruces rough in the distant glitter
 
Of the January sun; and not to think
Of any misery in the sound of the wind,
In the sound of a few leaves,
 
Which is the sound of the land
Full of the same wind
That is blowing in the same bare place
 
For the listener, who listens in the snow,
And, nothing himself, beholds
Nothing that is not there and the nothing that is.
 
 
 
 
 
 
L’UOMO DI NEVE
 
Si deve avere una mente d’inverno
per guardare il gelo e i rami
dei pini incrostati di neve,
 
e avere freddo da molto tempo
per vedere i ginepri irti di ghiaccio,
gli abeti ruvidi nel luccichio lontano
 
del sole di gennaio, e non pensare
a una pena nel suono del vento,
nel suo di poche foglie,
 
che è il suono della terra
percorsa dallo stesso vento
che soffia nello stesso nudo luogo
 
per l’ascoltatore, che ascolta nella neve
e, nulla in sé, vede
nulla che non sia lì, e il nulla che è.
 
(Traduzione di Massimo Bacigalupo)
 
 
 
 
 
 
ANDREA ZANZOTTO
(da La Beltà” – Mondadori Lo specchio, 1968)
 
LA PERFEZIONE DELLA NEVE
 
Quante perfezioni, quante
quante totalità. Pungendo aggiunge.
E poi astrazioni astrificazioni formulazione d’astri
assideramento, attraverso sidera e coelos
assideramenti assimilazioni
nel perfezionato procederei
più in là del grande abbaglio, del pieno e del vuoto,
ricercherei procedimenti
risaltando, evitando
dubbiose tenebrose; saprei direi.
Ma come ci soffolce, quanta è l’ubertà nivale
come vale: a valle del mattino a valle
a monte della luce plurifonte.
Mi sono messo di mezzo a questo movimento -mancamento
radiale
ahi il primo brivido del salire, del capire,
partono in ordine, sfidano: ecco tutto.
E la tua consolazione insolazione e la mia, frutto,
di quest’inverno, allenate, alleate,
sui vertici vitrei del sempre, sui margini nevati
del mai-mai-non-lasciai-andare,
e la stella che brucia nel suo riccio
e la castagna tratta dal ghiaccio
e tutto – e tutto eros, tutto libertà nel laccio
nell’abbraccio mi sta: ci sta,
ci sta all’invito, sta nel programma, nella faccenda.
Un sorriso, vero? E la vi(ta) (id-vid)
quella di cui non si può nulla, non ipotizzare,
sulla soglia si fa (accarezzare?).
Evoè lungo i ghiacci e le colture dei colori
e i rassicurati lavori degli ori.
Pronto. A chi parlo? Riallacciare.
E sono pronto, in fase dell’immortale,
per uno sketch-idea della neve, per un suo guizzo.
Pronto.
Alla, della perfetta.
«È tutto, potete andare.»