POESIA A CONFRONTO: La gelosia

Saffo 4

 
 
 
 

POESIA A CONFRONTO: La gelosia
SAFFO, CATULLO, MARINO, METASTASIO

 
 

La gelosia è un sentimento che si insinua in modo molto subdolo nella nostra interiorità, la mina nel profondo, ci porta a dubitare e spesso a travisare la realtà, specialmente quando si associa all’amore perché porta a ritenere l’amato qualcosa di esclusivo, solo nostro: per certi versi è una faccia alternativa del nostro egocentrismo, uno specchio delle nostre fragilità e incertezze. Ma è anche evidenza del sentimento, sua testimonianza.

Di questo sentimento si occupa la poesia a partire dalle origini più antiche, come documentato dal frammento 21 di Saffo, ribattezzato e noto comunemente come “ode della gelosia”. L’ode è una raffigurazione efficace, plastica si direbbe, degli effetti fisici e corporei della gelosia che sfigurano la persona, alterano le percezioni sensoriali, la portano in una condizione di follia incontrollata e spossessamento prossimo all’idea stessa della morte. E tutto questo viene scatenato semplicemente dal sapere l’amata vicino a un altro mentre gli parla e gli sorride con dolcezza, in una (presunta) intesa amorosa.

Il carme di Catullo è un’evidente ripresa, o versione in latino come si usava al tempo, dell’ode in greco di Saffo. E tutta l’impostazione del carme, nelle prime tre strofe, è sostanzialmente simile, basandosi sulla descrizione delle alterazioni fisiche e corporee indotte dalla gelosia incontrollabile di Catullo verso chi siede vicino a Lesbia e le sorride, qui addirittura superiore agli dèi grazie a questo privilegio. La quarta strofa introduce la novità, in linea con lo spirito pragmatico della romanità: Catullo invita se stesso a rifuggire dall’otium, a non farsi travolgere dalla passione perdendo di vista le priorità della propria vita, perché questa strada può solo portare al fallimento, all’autolesionismo puro, senza senso. Insomma c’è un richiamo all’ordine come un preciso dettato etico.

Il tema della gelosia viene trattato con una certa insistenza dalla poesia del ‘600 e del ‘700 fortemente incentrata sulla tematica amorosa e affettiva. Molte le poesie a tema, fra cui si è scelto di proporre due maestri del loro tempo: Marino e Metastasio.

Nel sonetto di Marino, coerente con la sua poetica della “meraviglia”, si usano immagini forbite che possano accattivare la fantasia del lettore, usando un impianto retorico e stilistico raffinato, al limite dello stucchevole in alcuni passaggi, con metafore ardite e insolite che vengono affastellate per successiva accumulazione, tutto per rappresentare la gelosia (definita via via “tarlo e rima d’amor”, “sferza de l’alme”, “vipera”, “scoglio pungente”, “nembo stridente”, “arpia”, “peste d’Averno”). Assistiamo a una poesia tutta improntata alla tecnica, all’ingegno stilistico, e tutta costruita per screditare il sentimento della gelosia, anche qui additato come male assoluto tanto da non poter essere vinto neppure dal gelo dell’Inferno, nell’iperbole finale che chiude il sonetto.

Al tema della gelosia per la amata Nice dedica una canzonetta, molto musicale e ariosa, un maestro del genere: Metastasio. La canzonetta gioca tutta sul tema del rimprovero, dell’ammissione del proprio torto nel ritenere anche solo lontanamente possibile un tradimento da parte di Nice, ma subito il ricordo dell’antefatto scatenante l’equivoco fa rivivere quel medesimo dubbio, lo rende ancora più acuto. La gelosia è un male che pulsa sottopelle, impossibile da sedare, come confermano le due similitudini finali: come il marinaio che non sa rinunciare al mare e a tutti i suoi pericoli e come il guerriero che non sa trattenere il suo desiderio di combattere, allo stesso modo l’amante non sa rinunciare alla gelosia, forse proprio perché è un ingrediente fondamentale dell’amore, senza il quale l’amore perderebbe parte del suo fascino.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
SAFFO
(Frammento 21 Voigt, VI secolo a.C.)
 
Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν
ἔμμεν᾽ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-
σας ὐπακούει
 
καὶ γελαίσας ἰμέροεν, τό μ᾽ ἦ μὰν
καρδίαν ἐν στήθεσιν ἐπτόαισεν,
ὠς γὰρ ἔς σ᾽ ἴδω βρόχε᾽ ὤς με φώνη-
σ᾽ οὐδ᾽ ἒν ἔτ᾽ εἴκει,
 
ἀλλὰ κὰδ μὲν γλῶσσα ἔαγε, λέπτον
δ᾽ αὔτικα χρῷ πῦρ ὐπαδεδρόμακεν,
ὀππάτεσσι δ᾽ οὐδὲν ὄρημμ᾽, ἐπιβρό-
μεισι δ᾽ ἄκουαι,
 
ψῦχρα δ᾽ ἴδρως κακχέεται, τρόμος δὲ
παῖσαν ἄγρει, χλωροτέρα δὲ ποίας
ἔμμι, τεθνάκην δ᾽ ὀλίγω ’πιδεύης
φαίνομ’ ἔμ᾽ αὔτᾳ·
 
ἀλλὰ πὰν τόλματον, ἐπεί κ[†]  
 
 
 
A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie
e tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.
 
(traduzione di Salvatore Quasimodo, da Lirici greci – Corrente, 1940)
 
 
 
 
 
 
CATULLO
(da Carmina – I secolo a.C.)
 
LI.
 
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
 
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
vocis in ore,
 
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina teguntur
lumina nocte.
 
Otium, Catulle, tibi molestum est:
otio exsultas nimiumque gestis:
otium et reges prius et beatas
perdidit urbes.
 
 
 
 
LI.
 
Mi sembra identico agli dèi
anzi, se possibile, superiore agli dèi
chi, senza tregua, sedendoti di fronte
ti guarda e ti ascolta
 
mentre ridi dolcemente, e io misero
per questo, perdo i sensi: infatti, appena
ti guardo, Lesbia, non mi resta
voce in gola,
 
la lingua anzi si spezza, sotto pelle una tenue
fiamma si propaga, in un ronzio insistente
tintinnano le orecchie, gli occhi diventano
gemelli di un duplice buio.
 
L’ozio, Catullo, ti fa male.
Nell’ozio ti esalti e ti agiti invano:
l’ozio, prima di te, re e città
felici mandò in rovina.
 
(traduzione di Fabrizio Bregoli)
 
 
 
 
 
 
GIOVAN BATTISTA MARINO
(da La lira – 1614)
 
ALLA GELOSIA
 
Tarlo e rima d’amor, cura mordace
che mi rodi a tutt’ore il cor dolente,
stimolo di sospetto a l’altrui mente,
sferza de l’alme, ond’io non ho più pace,
 
vipera in vasel d’or cruda e vorace,
nel più tranquillo mar scoglio pungente,
nel più sereno ciel nembo stridente,
tosco tra’ fior, tra’ cibi arpia rapace,
 
sogno vano d’uom desto, oscuro velo
agli occhi di ragion, peste d’Averno,
che la terra avenéni e turbi il cielo,
 
ov’amor no, ma sol viv’odio eterno
vanne a l’ombre d’abisso, ombre di gelo!
Ma temo non t’aborra anco l’inferno.
 
 
 
 
 
 
PIETRO METASTASIO
(Da Pietro Metastasio, Opere, a cura di Mario Fubini – La letteratura italiana, storia e testi, vol. 41 -Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1968 – Composta nel 1746)
 
Perdono, amata Nice,
bella Nice, perdono. A torto, è vero,
dissi che infida sei:
detesto i miei sospetti, i dubbi miei.
Mai più della tua fede,
mai più non temerò. Per que’ bei labbri
lo giuro, o mio tesoro,
in cui del mio destin le leggi adoro.
 
Bei labbri, che Amore
formò per suo nido,
non ho più timore,
vi credo, mi fido:
giuraste d’amarmi;
mi basta così.
Se torno a lagnarmi
che Nice m’offenda,
per me più non splenda
la luce del dì.
 
Son reo, non mi difendo:
puniscimi, se vuoi. Pur qualche scusa
merita il mio timor. Tirsi t’adora;
io lo so, tu lo sai. Seco in disparte
ragionando ti trovo: al venir mio
tu vermiglia diventi,
ei pallido si fa; confusi entrambi
mendicate gli accenti; egli furtivo
ti guarda, e tu sorridi… Ah quel sorriso,
quel rossore improvviso
so che vuol dir! La prima volta appunto
ch’io d’amor ti parlai, così arrossisti
sorridesti così, Nice crudele.
Ed io mi lagno a torto?
E tu non mi tradisci? Infida! ingrata!
barbara!… Aimè! Giurai fidarmi, ed ecco
ritorno a dubitar. Pietà, mio bene,
son folle: in van giurai; ma pensa al fine
che amor mi rende insano
che il primo non son io che giuri in vano.
 
Giura il nocchier, che al mare
non presterà più fede,
ma, se tranquillo il vede,
corre di nuovo al mar.
Di non trattar più l’armi
giura il guerrier tal volta,
ma, se una tromba ascolta
già non si sa frenar.