POESIA A CONFRONTO – Il miglior amico
OMERO, PARINI, POZZI, ANNINO
Quando ci si riferisce al miglior amico, non può essere se non lui: ciascuno scelga la specie che gli è più congeniale o adotti piuttosto un meticcio, con tutta la sua grande simpatia e l’affetto che ci sa trasmettere. Il protagonista indiscusso di questo confronto di oggi resta comunque lui: il cane.
La poesia classica dà un esempio indimenticabile del legame inscindibile fra cane e uomo (non ci piace chiamarlo padrone) attraverso il cane di Ulisse, Argo, ormai vecchio, dimenticato da tutti, pieno di zecche e relegato fra la sporcizia, capace, solo fra tutti, di riconoscere Ulisse anche nel camuffamento da vecchio mendicante creato dalla dea, e salutarlo con quello scodinzolio, ultimo gesto d’affetto prima della morte, che muove a pietà Ulisse, lo obbliga al pianto. Qui proponiamo il passo nella pregevole traduzione di Ippolito Pindemonte.
Di una cagnetta capricciosa, di una “vergine cuccia” vezzeggiata e viziata dalla sua signora, ci parla invece Parini. Colpevole di averle inferto un calcio con il “sacrilego piè” dopo essere stato morso dal suo “eburneo dente”, il servo ne deve subire tutte le conseguenze che lo portano a essere cacciato dalla casa del signore, ridotto senza pietà alla fame. Tutto questo perché la vergine cuccia “idol placato / da le vittime umane” potesse essere risarcita, andarsene “superba”, vera padrona della casa. Parini è magistrale nel racconto in versi di questa paradossale farsa (salvo per il servo per cui è una reale e spietata tragedia), farsa che avviene nel mondo a rovescio in cui vive “il Signore”.
Di un “cane sordo” “per il gran vento / che nel castello vola e grida”, ci parla invece Antonia Pozzi, in questa acquaforte in versi essenziale e simbolica, tutta tesa a ritrarre del cane la sua “chiusa e intera” “forza” che lo fa andare per “una sua / segreta linea / libero” (con iperbato e enjambement significativi). È naturale pensare a questa figura come contrapposta a quella dell’autrice, invece così fragile e incerta di fronte alla vita, alle sue avversità, come la sua vicenda biografica bene ci ricorda e testimonia.
Di un “cane dei miracoli” scrive, con il suo personalissimo stile, Cristina Annino: un cane dai tratti fantastici e inquieti a un tempo (“azzurro quasi una lampada”, “sul cranio / ha un inizio di tetra ansietà”), tutto assorbito in un suo mondo parallelo di “gatti interminabili” mentre “pensa all’aria, a scatti” che gli permettano di afferrarli, farli una sua preda. Il quadro che ne esce è straniato, la poesia apre varchi impensati al pensiero, la parola scompone e rivela, lascia aperta la prospettiva interpretativa che viene affidata, senza svelarla, al lettore.
Fabrizio Bregoli
OMERO
(da Odissea – Canto XVII, vv. 290-327 – VI secolo a.C.)
Così dicean tra lor, quando Argo, il cane,
Ch’ivi giacea, del pazïente Ulisse,
La testa, ed ambo sollevò gli orecchi.
Nutrillo un giorno di sua man l’eroe,
Ma corne, spinto dal suo fato a Troja,
Poco frutto potè. Bensì condurlo
Contra i lepri, ed i cervi, e le silvestri
Capre solea la gioventù robusta.
Negletto allor giacea nel molto fimo
Di muli, e buoi sparso alle porte innanzi,
Finchè, i poderi a fecondar d’Ulisse,
Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane,
Di turpi zecche pien, corcato stava.
Com’egli vide il suo signor più presso,
E, benchè tra que’ cenci, il riconobbe,
Squassò la coda festeggiando, ed ambe
Le orecchie, che drizzate avea da prima,
Cader lasciò: ma incontro al suo signore
Muover, siccome un dì, gli fu disdetto.
Ulisse, riguardatolo, s’asterse
Con man furtiva dalla guancia il pianto,
Celandosi da Euméo, cui disse tosto:
Euméo, quale stupor! Nel fimo giace
Cotesto, che a me par cane sì bello.
Ma non so, se del pari ei fu veloce,
O nulla valse, come quei da mensa,
Cui nutron per bellezza i lor padroni.
E tu così gli rispondesti, Euméo:
Del mio Re lungi morto è questo il cane.
Se tal fosse di corpo, e d’atti, quale
Lasciollo, a Troja veleggiando, Ulisse,
Sì veloce a vederlo, e sì gagliardo,
Gran maraviglia ne trarresti: fiera
Non adocchiava, che del folto bosco
Gli fuggisse nel fondo, e la cui traccia
Perdesse mai. Or l’infortunio ei sente.
Perì d’Itaca lunge il suo padrone,
Nè più curan di lui le pigre ancelle:
Chè pochi dì stanno in cervello i servi,
Quando il padrone lor più non impera.
L’onniveggente di Saturno figlio
Mezza toglie ad un uom la sua virtude,
Come sopra gli giunga il dì servile.
Ciò detto, il piè nel sontuoso albergo
Mise, e avviossi drittamente ai Proci;
Ed Argo, il fido can, poscia che visto
Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,
Gli occhi nel sonno della morte chiuse.
(traduzione di Ippolito Pindemonte, vv. 350-397)
GIUSEPPE PARINI
(Da Il Giorno – Il Mezzogiorno, vv. 510-556, 1765)
[…]
Tal ei parla, o Signore; e sorge intanto
al suo pietoso favellar dagli occhi
de la tua Dama dolce lagrimetta
pari a le stille tremule, brillanti
che a la nova stagion gemendo vanno
dai palmiti di Bacco entro commossi
al tiepido spirar de le prim’aure
fecondatrici. Or le sovviene il giorno,
ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie alunna,
giovenilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo con l’eburneo dente
segnò di lieve nota: ed egli audace
con sacrilego piè lanciolla: e quella
tre volte rotolò; tre volte scosse
gli scompigliati peli, e da le molli
nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti alzando: aita aita
parea dicesse; e da le aurate volte
a lei l’impietosita Eco rispose:
e dagl’infimi chiostri i mesti servi
asceser tutti; e da le somme stanze
le damigelle pallide tremanti
precipitàro. Accorse ognuno; il volto
fu spruzzato d’essenze a la tua Dama;
ella rinvenne alfin: l’ira, il dolore
l’agitavano ancor; fulminei sguardi
gettò sul servo, e con languida voce
chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
al sen le corse; in suo tenor vendetta
chieder sembrolle: e tu vendetta avesti
vergine cuccia de le grazie alunna.
L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo
udì la sua condanna. A lui non valse
merito quadrilustre; a lui non valse
zelo d’arcani uficj: in van per lui
fu pregato e promesso; ei nudo andonne
dell’assisa spogliato ond’era un giorno
venerabile al vulgo. In van novello
Signor sperò; ché le pietose dame
inorridìro, e del misfatto atroce
odiàr l’autore. Il misero si giacque
con la squallida prole, e con la nuda
consorte a lato su la via spargendo
al passeggiere inutile lamento:
e tu vergine cuccia, idol placato
da le vittime umane, isti superba.
[…]
(Da G. Parini, Il Giorno, vol. I, edizione critica a c. di D. Isella; vol. II, commento di M. Tizi, Fondazione Pietro Bembo/Guanda Editore, Parma 1996).
ANTONIA POZZI
(Scritta nel 1933 – Da Parole, Garzanti, Milano 1989)
IL CANE SORDO
Sordo per il gran vento
che nel castello vola e grida
è divenuto il cane.
Sopra gli spalti – in lago
protesi – corre,
senza sussulti:
né il muschio sulle pietre
a grande altezza lo insidia,
né un tegolo rimosso.
Tanto chiusa e intera
è in lui la forza
da che non ha nome
più per nessuno
e va per una sua
segreta linea
libero.
CRISTINA ANNINO
(Da Il cane dei miracoli – Bastogi, 1980)
C’È UN CANE IN QUESTA CASA
C’è un cane in questa casa,
azzurro quasi una lampada,
il collo pieno d’odori,
che gira e si aggrappa
e sul cranio
ha un inizio di tetra ansietà.
Diritto, dimentica
il viso nell’ombra
sul cumulo della schiena;
pensa all’aria, a scatti,
dove arriva, a gatti interminabili
che nella sua azzurra testa
lascino occhi e saliva.