POESIA A CONFRONTO – Il mare

POESIA A CONFRONTO – Il mare

 
 
 
 

POESIA A CONFRONTO – Il mare
MONTALE, PENNA, WALCOT, CONTE

 
 

Il mare, elemento primordiale associato alla nascita, alla rigenerazione, o ancora forza primigenia e misteriosa, o ancora simbolo dell’infinito inconosciuto e indecifrabile, o ancora luogo dell’avventura e della sfida dell’uomo alla natura e al destino: sono molteplici le associazioni possibili con questa componente costitutiva della natura, capace di incantarci e sorprenderci, protagonista di moltissimi versi di cui si offre una selezione, per quanto minima, nel confronto di oggi.

Partiamo con Montale che al suo mare di Liguria, il Mediterraneo, dedica, soprattutto nel suo primo libro “Ossi di seppia”, numerose poesie, fra cui quella scelta, in cui avviene l’immedesimazione fra mare e autore “ubriacato dalla [sua] voce”, nella consapevolezza per il giovane Montale che quel mare, luogo delle vacanze, gli è “antico” compagno; “ il piccino fermento / del mio cuore non era che un momento / del tuo”: ecco allora la necessità di rimuovere da sé ogni “lordura” della vita, come fa il mare con “le inutili macerie del [suo] abisso“, per riscoprirsi forse più indifeso, ma più autentico.

Fedele al dettato della sua poesia tutta improntata a brevità e essenzialità, Sandro Penna concentra in una quartina memorabile, spesso antologizzata, l’idea di tranquillità maestosa del mare (la figura della anafora e della ripetizione amplificano il senso), a cui si associa invece nel cuore del poeta un intenso rapimento estatico verso questo elemento naturale, espresso così efficacemente nella formula: “quasi un urlo / di gioia”, con un enjambement forte a mettere in evidenza lo stato d’animo dell’autore.

Con Walcot fa ritorno nella poesia contemporanea il verso epico, la forza ancestrale degli elementi naturali che grazie alla potenza della metafora trasfigurano in immagini oniriche e surreali, figure dell’inconscio primordiale che si annida nell’uomo, lo stesso che è alla base dell’origine del cosmo. Nel poema qui riportato gli elementi marini si associano alle diverse fasi di evoluzione dell’umanità, sancite dal succedersi dei libri della Bibbia, in un procedere che, originato dalla fede e da un disegno teleologico, giunge fino al concreto accadere della Storia dell’uomo, di cui il mare è appunto materiale vivente, capace di scriverne ogni pagina, dalla notte dei tempi, dal caos primordiale, fino a quel ”suono / come un sussurro senza alcun’eco // della Storia, che incomincia” “quando ogni roccia divenne nazione a sé”.

Infine Giuseppe Conte, fedele al credo mitomodernista di cui è una delle menti creatrici, si affida a una lode del mare, del quale è impossibile smettere di scrivere – ci dice – tanta è la sua forza, il suo significato, il suo mistero, tutti capaci di rinnovarne sempre il canto, farne nascere nuovi versi. Il mare è la poesia stessa, il bisogno ineludibile di libertà e canto. Scrivere del mare significa “sentirsi vicino / all’inizio di ogni lacerazione / al primo scoccare del tempo”, intuire nel più profondo del nostro animo quell’attimo ormai perduto in cui nacque la vita come oggi la conosciamo, quando la prima cellula scelse di farsi umanamente mortale.

 

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
EUGENIO MONTALE
(da Ossi di seppia – Gobetti, 1925)
 
Da “MEDITERRANEO”
 
Antico, sono ubriacato dalla voce
ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono
come verdi campane e si ributtano
indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso: e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.
 
 
 
 
 
 
SANDRO PENNA
(da Poesie (1927-1938) – Garzanti, 1987)
 
Il mare è tutto azzurro.
Il mare è tutto calmo.
Nel cuore è quasi un urlo
di gioia. E tutto è calmo.
 
 
 
 
 
 
DEREK WALCOTT
(dalla rivista Poesia, Anno XVIII, Dicembre 2005, N. 200, Crocetti Editore)
 
THE SEA IS HISTORY
 
Where are your monuments, your battles, martyrs?
Where is your tribal memory? Sirs,
in that gray vault. The sea. The sea
has locked them up. The sea is History.
 
First, there was the heaving oil,
heavy as chaos;
then, like a light at the end of a tunnel,
 
the lantern of a caravel,
and that was Genesis.
Then there were the packed cries,
the shit, the moaning:
 
Exodus.
Bone soldered by coral to bone,
mosaics
mantled by the benediction of the shark’s shadow,
 
that was the Ark of the Covenant.
Then came from the plucked wires
of sunlight on the sea floor
 
the plangent harps of the Babylonian bondage,
as the white cowries clustered like manacles
on the drowned women,
 
and those were the ivory bracelets
of the Song of Solomon,
but the ocean kept turning blank pages
 
looking for History.
Then came the men with eyes heavy as anchors
who sank without tombs,
 
brigands who barbecued cattle,
leaving their charred ribs like palm leaves on the shore,
then the foaming, rabid maw
 
of the tidal wave swallowing Port Royal,
and that was Jonah,
but where is your Renaissance?
 
Sir, it is locked in them sea sands
out there past the reef’s moiling shelf,
where the men-o’-war floated down;
 
strop on these goggles, I’ll guide you there myself.
It’s all subtle and submarine,
through colonnades of coral,
 
past the gothic windows of sea fans
to where the crusty grouper, onyx-eyed,
blinks, weighted by its jewels, like a bald queen;
 
and these groined caves with barnacles
pitted like stone
are our cathedrals,
 
and the furnace before the hurricanes:
Gomorrah. Bones ground by windmills
into marl and cornmeal,
 
and that was Lamentations—
that was just Lamentations,
it was not History;
 
then came, like scum on the river’s drying lip,
the brown reeds of villages
mantling and congealing into towns,
 
and at evening, the midges’ choirs,
and above them, the spires
lancing the side of God
 
as His son set, and that was the New Testament.
Then came the white sisters clapping
to the waves’ progress,
and that was Emancipation—
 
jubilation, O jubilation—
vanishing swiftly
as the sea’s lace dries in the sun,
but that was not History,
that was only faith,
and then each rock broke into its own nation;
 
then came the synod of flies,
then came the secretarial heron,
then came the bullfrog bellowing for a vote,
 
fireflies with bright ideas
and bats like jetting ambassadors
and the mantis, like khaki police,
 
and the furred caterpillars of judges
examining each case closely,
and then in the dark ears of ferns
 
and in the salt chuckle of rocks
with their sea pools, there was the sound
like a rumor without any echo
 
of History, really beginning.
 
 
 
 
IL MARE È STORIA
 
Dove sono i vostri monumenti, le vostre battaglie, màrtiri?
Dov’è la vostra memoria tribale? Signori,
in quella grigia volta. Il mare. Il mare
li rinchiude. Il mare è Storia.
 
All’inizio ribolliva l’olio,
pesante come il caos;
poi, come una luce in fondo a una galleria,
 
la lanterna d’una caravella,
e quella fu la Genesi.
Poi ci furono gli urli assordanti,
la merda, i lamenti:
 
l’Esodo.
Osso ad osso saldato dal corallo,
mosaici
avvolti dall’ombra benedicente dello squalo,
 
quella fu l’Arca della Testimonianza.
Poi vennero dai pizzicati fili
della luce sul fondo del mare
 
le arpe dolenti della cattività babilonese,
quali le bianche cipree agglomerate come manette
sulle donne annegate,
 
e quelli furono gli eburnei bracciali
del Canto di Salomone,
ma il mare continuava a voltare pagine bianche
 
cercando la Storia.
Poi vennero gli uomini con occhi pesanti come ancore
che affondavano senza tombe,
 
briganti che grigliavano bestiame,
lasciando le loro costole carbonizzate come foglie di palma sul lido,
poi lo schiumoso, feroce gabbiano
 
della marea che ingoia Port Royal,
e quello fu Giona,
ma dov’è il vostro Rinascimento?
 
Signore, è chiuso in quelle sabbie
laggiù oltre il fiacco piano del frangente,
dove gli uomini di guerra scendevano;
 
metti gli occhiali subacquei, ti ci porterò io,
È tutto impalpabile e glauco
tra i colonnati di corallo,
 
oltre le finestre gotiche delle gorgonie
fin dove la crostosa cernia, occhivenata,
ammicca, carica dei suoi gioielli, come una calva regina;
 
e queste grotte lunettate con cirripedi
bucherellati come pietra
sono le nostre cattedrali,
 
e la fornace prima degli uragani:
Gomorra. Ossa tritate dai mulini a vento
in marna e crusca –
 
ecco le Lamentazioni −
nient’altro che Lamentazioni,
non Storia;
 
poi vennero, come schiuma sul labbro semiasciutto del fiume,
le brune canne dei villaggi
che spumeggiano e congelano in città,
 
e la sera, i cori dei moscerini,
e, sopra, le cuspidi
spinte nel fianco di Dio
mentre Suo figlio moriva, e quello fu il Nuovo Testamento.
 
Poi vennero le bianche sorelle che applaudivano
il progresso dell’onda,
ed ecco l’Emancipazione –
 
giubilo, giubilo −
presto svanito
mentre il pizzo del mare s’asciugava al sole,
ma non era la Storia,
non era che fede,
e poi ogni roccia divenne nazione a sé;
 
poi venne il sinodo delle mosche,
poi venne l’airone segretariale,
poi venne la rumorosa rana toro in cerca di voti,
 
lucciole con idee brillanti
e pipistrelli come ambasciatori volanti
e la mantide, come una poliziotta in cachi,
 
e i pelosi bruchi dei giudici
che esaminavano ogni caso da vicino,
e poi nelle scure orecchie delle felci
 
e nel gorgoglio salino delle rocce
con i loro stagni di mare ecco il suono
come un sussurro senza alcun’eco
 
della Storia, che incomincia.
 
 
(Traduzione di Nicola Gardini)
 
 
 
 
 
 
GIUSEPPE CONTE
(Da Non finirò di scrivere sul mare – Lo Specchio Mondadori, 2020)
 
Non finirò di scrivere sul mare.
Perché il mare è le Sirene la cui voce
calamitante d’amore oscura
voglio ascoltare senza paura
io che non ho dove tornare, non ho un’Itaca
né Penelope né Telemaco che valgano
più del canto e delle traversate.
Perché il mare è le balene, i cui corpi
vasti e grondanti, innocenti,
scaldano i desideri più smisurati
e danzano nel più lento
arduo accoppiamento
che si conosca sul pianeta.
Perché il mare è le onde, istantanee e frananti
che scalpitano e scavano dall’orizzonte
sino alla riva, è la spuma che riga
l’aria di salino
è sentirsi vicino
all’inizio di ogni lacerazione
al primo scoccare del tempo
alla prima decisione di una cellula
– o sogno che sia stato, dirompente e fatale –
di diventare mortale.